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Il semaforo

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Reverendo Carlo Tetsugen Serra

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Quando siamo seduti in zazen, la nostra mente da una parte è sicuramente più ricettiva. Noi cerchiamo di stare seduti nella presenza mentale. Che cosa significa presenza mentale? Presenza mentale significa essere presenti a tutti i pensieri, che ruotano nella nostra mente. Di fatto, non è proprio un ruotare, un seguire e una conseguenza lineare di pensieri. E’ una grande accozzaglia, un movimento senza direzione. Nascono alcuni pensieri, poi spariscono, poi ne nascono altri, poi scompaiono, poi altri, poi torna il pensiero di prima…

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Questo è l’incedere di una mente normale. Poi ci sono, e ci possono essere, periodi in cui la nostra mente ha dei pensieri più ossessivi e quindi quando ci sediamo in zazen, si producono,  questi pensieri. Quando, seduti in zazen, lasciamo andare questi pensieri. E non è una grande volontà il lasciarli andare: accade. Tutti hanno sperimentato come non siamo proprio così, ancora, provetti guidatori dei nostri pensieri: partono come dardi impazziti. Ma, ogni tanto, quando abbiamo la capacità di stare

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veramente nel nostro presente, nel quieto zazen, che non è certo una quietudine di annullamento, ma è appunto una presenza mentale quieta su tutto ciò che accade, allora incomincia ad entrare in profondità la pratica dello zazen. Lasciando i dibattiti sterili su cosa sia profondo, non profondo, motivato, non motivato… Lasciando ad altri momenti, non allo Zen, questi sterili battibecchi della nostra mente: mi devo sedere senza intenzione, e  allora chi mi sta spingendo a sedermi? Allora mi devo sedere con un’intenzione, ma, appena piego le ginocchia non devo aver più intenzione di essere seduto.

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Allora che cosa mi tiene fermo lì seduto? No? E lo stesso la mente: la mente deve essere equanime su tutti i pensieri, allora li faccio scorrere tutti e dò retta un po a tutti. La mente non deve pensare, allora basterebbe neanche addormentarsi perché anche nel sonno ci vuole un’astrazione totale, ma sappiamo bene che non è la pratica della meditazione. In generale, non è neanche quella dello zazen, sicuramente, che meditazione sia o non sia definita.

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Di fatto, quando ci sediamo in zazen, prendendo spunto da questi periodi e dalle classificazioni siamo in zona arancione. Perché siamo in zona arancione. Perché ogni tanto vado sicuramente in zona rossa. E nella zona rossa mi vieto di pensare, mi vieto di lasciar andare ogni cosa, come quando siamo in zona rossa: non posso fare questo, non faccio quell’altro…il mio critico interiore, che è uno dei peggiori, ma anche dei migliori, dipende dal momento, dei peggiori giudici, perché noi pensiamo di essere il miglior giudice di noi stessi ma, indubbiamente, per  alcune cose lo siamo perché abbiamo la conoscenza, o dovremmo avere la conoscenza approfondita di noi stessi, ma di fatto il giudizio è un giudizio viziato, perché è un giudizio che parte dalle nostre incertezze, dalle nostre debolezze, dai nostri condizionamenti, dalle nostre paure,

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da tutto quel bagaglio che ben sappiamo e che ci rende poco credibili come giudici di noi stessi.  Il nostro critico interiore è quello che è sempre pronto a volere il meglio di noi, pur non sapendo quale sia poi il meglio di noi. Molte volte l’abbiamo già dato, non riusciremo più a darlo nella vita, ma il critico interiore

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mette sempre a tacere quello che facciamo per voler raggiungere di più. Oppure lo assolve come qualcosa che non ha, effettivamente però un’analisi critica del nostro comportamento. Quella è la zona rossa, che seduti in zazen, avviene spesso, no?

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O ci mettiamo a tacere, quindi siamo noi i primi a censurare noi stessi, i nostri pensieri e a censurare tutto con forza, con volontà per cercare la tranquillità, ma ben sappiamo che non è questo il modo.

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Oppure siamo in zona gialla, dove vaghiamo continuamente, velocemente, da un pensiero all’altro: tutto è aperto, tutto è possibile, anche se ci costringiamo un po’ a stare comunque nella postura esternamente, poi internamente siamo pronti a dar retta ad ogni pensiero, a rispondere o a richiamare ogni nostro pensiero.

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Di fatto, probabilmente, l’atteggiamento giusto nella pratica dello zazen, e non sto dicendo l’atteggiamento dello zazen, sto dicendo il nostro atteggiamento giusto, per approcciarci e per essere la pratica dello zazen, è quello arancione. Quando siamo al semaforo arancione, stiamo guidando la nostra autovettura, la nostra macchina, la nostra bicicletta, così seduti in zazen stiamo guidando il nostro zazen. Quando il semaforo è arancione, quando siamo in zona arancione, la nostra attenzione si quadruplica perché siamo attenti, per vedere se riusciamo a superare ad andare oltre l’incrocio.

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Contemporaneamente siamo attenti se dietro, qualcuno, nel nostro rallentare per l’attenzione, non arrivi e non ci tamponi continuamente attenti. Solertemente presenti, ché a destra e a sinistra non arrivino, ché qualcuno non sia partito con il verde velocemente, e quindi si scontri con noi nel passare l’incrocio.

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Quindi, la zona arancione, sia metaforicamente come nel periodo del covid, sia del semaforo arancione, è il momento migliore. E’ il momento migliore perché siamo seduti con un’attenzione molto consapevole su cosa sta accadendo.

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Lasciare andare in zazen è avere un’attenzione consapevole di quello che sta accadendo in quell’istante. Questo ci permette di guidare il nostro zazen. Questo lasciarsi andare non vuol dire, come diceva Linji, come suggeriva Mumon, un sacco di pere o di patate no? Abbandonato così, lì, silenzioso. Quella non è la pratica dello zazen, per noi. La pratica dello zazen è la mente vigile. La mente presente, che sa richiamarsi quando il pensiero la allontana dallo zazen; che sa essere sveglia e presente quando sente il rumore della notte, come qui, a Sanboji, fuori da questo zendo. O il vento, o un clacson, o un rumore che viene dalla strada, dove voi siete in zazen.

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Quella è la mente dello zazen. La zona dove spazi, ma non ti allontani; dove spazi, ma non sei rigidamente con la mente ferma. Come tutti i processori, quando stanno fermi per un po’ si spengono. Non è lo scopo e l’intenzione dello zazen spegnere la mente, ma realizzare l’insight profondo, l’illuminazione, la nostra natura di esseri umani. Essere vigili in zazen, solerti in zazen,

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senza farsi catturare e senza addormentarsi, è la pratica, per noi, dello zazen.

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Il respiro profondo. La stabilità nella nostra seduta. Nelle mani, il nostro mudra di grande energia. Nella nostra tradizione dello Zen, ci piace, siamo amanti del sorriso ieratico del Buddha e, seduti in zazen, siamo dei Buddha. Quei muscoli tesi da affaticamento di concentrazione, di serietà

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non richiesta, non appartengono alla natura di Buddha. La rigidità delle spalle, che impedisce di aprire il cuore insieme alla nostra mente, non appartiene alla natura di Buddha.

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Se la natura di Buddha è tutto, la natura di Buddha che l’essere umano deve esprimere, è la sua migliore natura. Quando è rosso, stiamo fermi, in attesa di ripartire, e intanto la nostra mente vaga ovunque. Quando è verde andiamo, spesso senza meta. Quando siamo in arancione, la nostra zona arancione è la nostra mente: attenta, vigile a quale sia la strada migliore, a quale sia il meglio da farsi.

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Seduti in  zazen, nell’attenzione vigile, respirando profondamente, mantenendo la postura resiliente da un attimo all’altro, così come lo è la nostra mente, d’altronde. Tempo, spazio, tutto quello che è stato definito dalla nostra mente, dalla mente degli esseri umani, non ha più importanza. Quando stiamo veramente in questa pratica, soltanto il dover far altro, successivamente, ci farà uscire dallo zazen.

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Soltanto il disagio che può venirsi a creare per chi non è abituato nel corpo, può farci uscire dallo zazen. Diversamente staremmo qui, come Shakyamuni Buddha, nella bellezza dello zazen, ad infinitum…

UBI
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