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ZEN O SPIRITUALITÀ ZEN IN EUROPA.

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ZEN O SPIRITUALITÀ ZEN IN EUROPA.

Se lo Zen vuole fiorire in Europa con uno spirito rinnovato come è di tradizione Zen, e non solo riempire i Dojo di praticanti “spirituali”, dovrà entrare in dialogo con un nuovo Buddhismo Europeo. Vedo almeno cinque punti che forse nel continente americano i buddhisti hanno già iniziato ad affrontare: “laicità”, “individualismo”, “eclettismo”, “egualitarismo” e “attivismo”.

Per “Laicità” intendo la tendenza, spesso identificata come caratteristica peculiare della modernità, a considerare il “sacro” regno della religione come prodotto della cultura umana, piuttosto che vedere i mondi della natura e della cultura come espressione di un regno sacro. I buddhisti Europei tipicamente non vedono il loro paese come un mandala; non leggono la loro storia come fasi del dharma che portano alla venuta del futuro Buddha Maitreya; non vedono la propria vita qui come preparazione alla nascita a Sukhāvatī   la “Terra Pura” di Amitābha. Non trattano le idee e le pratiche del buddhismo come manifestazioni del dharma-kāya (Hōshin nello zen) uno dei tre corpi del Buddha (sānshēn-Zen) assieme al sambhogakaya e il nirmāṇakāya che delineano la natura multidimensionale dell’esistenza di un Buddha, ognuno dei quali rappresenta un diverso aspetto dell’illuminazione. Piuttosto da noi il buddhismo non è che una delle opzioni umane in un mondo di molte opzioni; esso deve competere sul mercato per dimostrare il proprio valore, sia all’individuo che alla società. Come qualsiasi prodotto sul mercato, il buddhismo può manipolare i gusti dei suoi consumatori attraverso un’abile pubblicità, ma deve anche soddisfare i loro gusti attraverso una sapiente presentazione.

Per “Individualismo” intendo la tendenza a trattare il buddhismo come un veicolo per l’esperienza personale di benessere, piuttosto che come comunità sociale (Sangha) o un’istituzione religiosa o una tradizione culturale. Oggi tutti facciamo una netta distinzione tra “religione” e “spiritualità” la prima ha a che fare con istituzione, rituale e dogma; la spiritualità riguarda la vita interiore dell’individuo. In questa distinzione, la religione è considerata in qualche modo sospetta, superficiale e “non più autentica”; la spiritualità è vista come pura e bella. Anche se il linguaggio della spiritualità spesso mette grande valore per un’umanità comune e un’armonia tra il mondo umano e quello naturale, è tipicamente interessato prima di tutto all’esperienza privata: come mi sento io riguardo a me stesso, all’umanità e al mondo. 

Per molti buddhisti in Europa, quindi, l’appartenenza a un’organizzazione buddhista è una cosa importante ma una preoccupazione secondaria, e l’accettazione delle norme di una particolare comunità buddhista è altrettanto un compromesso in quanto è un impegno.

Per “Eclettismo” intendo la tendenza a “guardarsi intorno” per ciò che è attraente nel mercato spirituale e religioso e mettere insieme una versione personale della spiritualità che può essere attinta da una varietà di fonti, buddhiste e non buddhiste. La scena buddhista internazionale è oggi ricca di una grande varietà di opzioni importate da forme della religione provenienti praticamente da tutti i paesi dell’Asia, e nuove forme domestiche che mescolano tradizioni e insegnamenti buddhisti con elementi tratti dalla psicologia, dalla spiritualità “new age”, dall’ecologia e da altre correnti di cui ci siamo tutti entusiasmati (quelli della mia età) negli anni settanta. In un mercato del genere, non sorprende affatto che quegli europei saccenti conservatori di cultura intellettuale e filosofica, dai calvinisti ai protestanti al monachesimo cristiano, diffidenti come sono nei confronti della chiesa come dogma, tendono a mostrare poca “fedeltà al marchio” per una particolare tradizione. L’identità settaria è una questione abbastanza fluida, e un mix di fonti buddhiste oggi abbastanza comune: da Dōgen al Dalai Lama. Le varie tradizioni del buddhismo asiatico sono spesso per noi come le “risorse naturali” importate, che un europeo deve trasformare in prodotti finiti dall’industria spirituale.

Per “Egualitarismo” intendo la tendenza a immaginare ogni individuo come attore alla pari nella vita spirituale. Nel suo periodo formativo, il buddhismo in occidente ha visto la sua parte di “guru” culto del maestro; ma nella vecchia Europa esiste un’abitudine culturale più profonda di resistenza all’autorità e di risentimento, dopo la rivoluzione francese, verso un certo tipo di gerarchia privilegiata. La superiorità spirituale dei un certo clero buddhista è sospetta; la saggezza degli anziani deve essere giustamente dimostrata non riconosciuta solo per dato anagrafico.

L’’autorità concessa agli insegnanti asiatici è continuamente indebolita nella tradizione buddhista, sono indeboliti da una “cultura giovanile” che valorizza ciò che è nuovo e originale. Oggi i giovani desiderano una spiritualità non confezionata nei valori e nelle parole del passato. La leadership nella comunità oggi avviene per consenso e deve essere raggiunta democraticamente non per elezione diretta da maestro a discepoli. Gli uomini non possono parlare per le donne; le donne parlano per sé stesse e chiedono un buddhismo che parli a loro in quanto donne non in quanto esseri e cosi per il panorama infinito di transgenere.

Infine, per “Attivismo” intendo la tendenza a pensare al buddhismo come una pratica di benessere, piuttosto che come un sistema di credenze filosofiche e religiose. Naturalmente ci sono molti occidentali che apprezzano il buddismo semplicemente come visione del mondo o modo di pensare sulle cose della vita, molti che descrivono le loro convinzioni e se stessi come “buddhisti” ma non fanno nulla al riguardo. Ancora gli occidentali sembrano attratti dal buddhismo soprattutto come qualcosa da fare, come una serie di esercizi spirituali terapeutici dove essere coinvolti. Il buddhismo americano in genere è l’immagine di un “buddhismo attivo” impegnato nel benessere soprattutto del pianeta, ma non solo.

Gli occidentali oggi possono avere poca passione per i dogmi e i rituali della “chiesa buddhista”, ma hanno fede nell’obiettivo di l’illuminazione e le pratiche che dovrebbero realizzarla, per questo i laici   non si accontentano di essere laici ma vogliono essere coinvolti nella meditazione assieme ai monaci e nella formazione spirituale. I buddhisti da noi non si accontentano di pensare al buddhismo religioso ma come un rifugio dai problemi; si aspettano che la religione risolva i problemi, non solo i loro propri problemi personali ma i problemi del mondo: guerra, ingiustizia sociale, degrado ambientale, ecc…  misurando il valore della religione dai suoi risultati sociali.

Nello Zen alcuni storici fin dal periodo Meiji hanno cercato di vedere il “nuovo Buddhismo” del periodo Kamakura (Kamakura-jidai, 1185-1333) come particolarmente “moderno” nella sua messa in discussione delle istituzioni tradizionali, dell’autorità e la sua enfasi sulla salvezza degli esseri nella figura del Bodhisattva; ma per quanto vicini possano a volte sentirsi agli occidentali di oggi alle intuizioni spirituali di figure come Dōgen, Shinran e Nichiren, dobbiamo riconoscere che questi uomini operarono all’interno di un mondo religioso molto diverso. Operavano in un mondo buddhista, dove la religione non era semplicemente una religione di scelta spirituale e privata, ma era intessuta nel tessuto stesso della sfera pubblica, della politica, della società e della cultura. In Un mondo del genere, sarebbe difficile anche solo immaginare una sorta di individualismo secolare e psicologico, una spiritualità che gli occidentali ora danno per scontata.

Molte delle intuizioni spirituali di Dōgen possono essere senza tempo, ma anche il suo buddhismo era un prodotto del suo tempo, andrebbero sottolineate alcune caratteristiche del suo buddhismo che sembrano un po’ datate e potrebbero presentarci dei problemi alle volte anche imbarazzanti per lo spirito libero zen….. Per Dōgen, come molti altri pensatori buddhisti del suo tempo, la questione principale non era quella come dare alla religione una voce significativa in un mondo secolare ma come scegliere tra le tante voci della religione il mondo religioso buddista. Un esempio tra tutti è il licenziamento di Dōgen di altre forme di religione comprese altre forme di Zen presenta un inizio goffamente settario a favore di uno Zen Occidentale che deve dialogare non solo con gli altri buddhisti ma anche con le altre religioni e altri punti di vista non religiosi. La visione particolare dello Zen tramandata nel lignaggio dei patriarchi Zen discendenti da Śākyamuni, è una visione difficile da mantenere tra gli occidentali che hanno familiarità con un’ampia varietà di storie alternative educati alla storiografia moderna sospettosa delle leggende delle storie sacre e anche sensibile al femminismo moderno in contrasto con l’autorità patriarcale dei lignaggi.

Tuttavia, se alcuni elementi dello Zen di Dōgen e altri maestri sembrano più artefatti di una religione giapponese medievale che risorse per un moderno buddhismo contemporaneo occidentale, ma anche orientale, non dobbiamo scoraggiarci troppo. C’è ancora molto in quello Zen che trascende il Giappone medievale e parla direttamente al buddhismo di oggi incoraggiandoci qui nel nostro tempo e luogo e sfidandoci a trascendere i limiti di questo tempo e luogo.

In particolare quello della comunità del Sangha “Buddismo partecipativo”, un modello di vita religiosa che penso abbia molto da dire in Europa visto i tentativi di una Europa unita, sia come comunità religiosa che come comunità di ispirazione alla vita spirituale. L’interesse di Dōgen per le regole e i rituali della vita monastica non era semplicemente un’espressione della sua fede nella sacra storia dell’istituzione Zen, non semplicemente la cieca imitazione della sacra tradizione. Piuttosto, è nato da a senso più profondo che la vita quotidiana della pratica Zen non era solo un mezzo per raggiungere un fine ma un fine in sé espressione della nostra natura di Buddha. La pratica Zen per Dōgen non era solo un insieme di tecniche per la trasformazione degli umani in Buddha; erano anche le forme attraverso le quali i Buddha si esprimevano come esseri umani. Quindi, impegnarsi in tale pratica equivaleva e equivale di per sé a partecipare alla vita di tutti gli esseri interdipendenti “uccidere il Budda” era ed è l’eliminazione del sé nell’individualità egoica .

Conclusioni temporanee

Ovviamente, la premessa chiave di questa argomentazione è l’affermazione che per lo Zen la Buddhità è un atto di espressione, un’attività piuttosto che uno stato permanente. Nella pratica Zen: tutto ciò che accade nella vita di un Buddha, è l’espressione di quella vita. O, per dirla in modo più forte, la Buddhità nel suo senso più ampio è semplicemente un avvenimento stesso: la continua espressione di tutte le cose, il continuo emergere del mondo e dell’universo nell’attimo in cui lo vivo.

Non è che c’è una “cosa” primordiale originale, un prima di tutto “Questo era” chiamata “Buddhità” da cui tutto emerge e perciò bisogna tener fede al processo che ci porta a questa manifestazione; ma il manifestarsi, il verificarsi di cose come le cose sono di per sé la Buddhità. Se chiamiamo questa attività fondamentale del divenire come qualcosa di “pratica” della Buddhità, allora tutto potrebbe dirsi pratica; o, per dirla in modo opposto dall’altro lato, in un senso ultimo, la nostra pratica del buddhismo è la partecipazione all’attività fondamentale del buddhismo del mondo stesso. Quindi, aspirare a una buddhità al di là della nostra pratica quotidiana del XXI secolo non significa solo uccidere il Buddha ma anche uccidere il Buddha mondo.

Fondamento del   pensiero dottrinale di Dōgen è che la realtà tutta, l’intero mondo, l’universo intero, l’uomo, i fenomeni, ogni cosa di cui facciamo esperienza è illuminazione: non esiste nulla che sia al di fuori dell’illuminazione. E d’altra parte, l’intero mondo è un’infinita serie di autoespressioni della Natura-di-Buddha e della vacuità̀.

Se comprendiamo questo non ha importanza quanto medievali siano alcuni aspetti Zen, o quanto rigettiamo o non assimiliamo di cultura orientale buddhista perché l’importante è inverare più che inculturare gli insegnamenti buddhisti.

Ho in mente l’ideale del Bodhisattva, che una volta accettato pazientemente e pienamente il mondo così com’è è proprio per questo profondamente impegnato a migliorarlo. Naturalmente, per partecipare a qualcosa bisogna cominciare riconoscendo che se ne fa parte. Ma è necessario anche “prendervi parte” per noi praticanti zen non vale più l’espressione “essere nel mondo, ma non del mondo” ma quella “Essere nel mondo e del mondo” o saremo “eretici” in quanto la Buddhità è il mondo, il continuo manifestarsi dell’universo.

La partecipazione alla pratica zen implica quindi un delicato equilibrio tra contesto e individuo, tra ieri e oggi in una sottile negoziazione tra accettazione e resistenza…….sempre a favore di tutti gli esseri.

UBI
Monastreo ZEN
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