Le 8 Fasi della Vita Monastica - 1° Parte
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Essere monaci oggi
Le scritture religiose dipingono la vita monastica come un cammino profondo e immutabile, una vita che sembra esser rimasta invariata per millenni, al di fuori del tempo e senza fratture. Ma questa visione non è che un’illusione: tutto cambia. Le tradizioni non sono eterne. Si trasformano lentamente, a volte contro ogni resistenza. Eppure, forse c’è un motivo per cui vediamo la vita monastica in questo modo: sotto la superficie di ciascuno di noi, c’è un altro essere, il monaco, che vive, o che, almeno, aspira a vivere, un’esistenza autentica, pura e perfetta. Credo che dentro ognuno di noi, in qualche angolo nascosto, dimori un monaco.
Per quanto vivaci e tumultuosi possiamo sembrare, credo che ognuno di noi, nel profondo, custodisca un desiderio di silenzio e perfezione. Un desiderio di pace che, seppur difficile da raggiungere, rappresenta un sollievo, un’armonia che risuona come un miracolo. Quando ci allontaniamo da questa aspirazione, come spesso accade, ci smarriamo. Corriamo alla ricerca di qualcosa che sembra sfuggirci, e le nostre vite appaiono disordinate. Ma quando tocchiamo quella parte di noi stessi, come accade durante un ritiro, in un momento di meditazione, in montagna o sotto il cielo stellato, ci sentiamo uniti. E, da quel centro, possiamo relazionarci con gli altri e con il mondo circostante con maggiore equanimità.
Questa vita monastica, questo sentiero di silenzio e completezza, questa via sacra, questo ideale, giace nel profondo del nostro cuore e riaffiora nei sogni, nelle esperienze religiose e nei testi sacri. Gli ideali ci spingono a oltrepassare noi stessi; per essere veramente umani, li necessitiamo, ma nonostante ciò non li raggiungiamo mai del tutto, restiamo sempre incompleti. Gli ideali spirituali ci incitano a perseverare, a cercare senza fine, a fallire con spirito sincero. Ma è in nome di questi ideali, che spesso ci colpevolizziamo e colpevolizziamo gli altri per non essere all’altezza. Siamo arrivati a giustificare atti terribili pur di perseguire l’illusione della perfezione dell’ideale.
Nei testi delle tradizioni spirituali, la vita monastica è dipinta come l’ideale di obbedienza perfetta, pace assoluta, gratitudine profonda e silenzio totale. È un’esistenza immersa nella meditazione profonda, in sintonia con la natura, tra montagne serene, nuvole leggere e foreste tranquille, o dolci colline sotto cieli limpidi. Forse tutto questo esiste davvero in qualche remoto angolo del mondo, oppure vive soltanto nei recessi della nostra immaginazione. Ma nella vita vissuta consapevolmente, questa realtà appare raggiungibile solo dopo un lungo cammino segnato da profonde tribolazioni interiori. Un morire per rinascere
Le Fasi della vita monastica e del praticante Zen
Ho trascorso decenni vivendo in “comunità monastiche”, sia in templi di città che di montagna. Queste comunità non sono monasteri nel senso tradizionale del buddhismo antico: non vi si assumono voti di celibato, povertà o stabilità a vita. Eppure, nel corso degli anni e attraverso numerosi scambi con monaci di altre tradizioni, ho constatato che i ritmi, le difficoltà, le gioie e i dolori vissuti in queste comunità sono, in larga misura, gli stessi che caratterizzano le comunità monastiche buddhiste tradizionali o di altre provenienze.
Ciò che ho osservato sono possibili fasi o “stadi” della vita monastica nel tempo: i cambiamenti che si verificano, le difficoltà che emergono. Naturalmente, nulla è assoluto: non ci sono fasi che si seguono in modo rigido, e ogni comunità o persona è unica. Nessuna descrizione di queste fasi può rendere pienamente giustizia alla varietà dei cammini che ogni individuo intraprende. Tuttavia, un approccio sistematico ha un suo valore, poiché ci sono dinamiche ricorrenti che molti di noi possono riconoscere e osservare.
All’inizio è “la luna di miele”: una fase di pura gioia, come quando ci avviciniamo a qualcosa di nuovo che ci attrae. Il monastero sembra perfetto, come un rifugio dove tutto si armonizza. Le campane, il cibo semplice, la meditazione al mattino presto, il paesaggio che ci avvolge, l’insegnamento che risuona con noi come un risveglio. È come se avessimo trovato, all’improvviso, una nuova vita in cui le vecchie preoccupazioni si sciolgono e la mente è libera di accogliere la pace. Ogni cosa sembra giusta, ogni gesto è illuminato dalla bellezza. Siamo grati, leggeri, come se, nel mezzo di una grande sofferenza, ci fosse stato dato un nuovo cammino in cui il cuore si alleggerisce.
Questa fase può durare, ma non è eterna. La seconda fase arriva presto, quella della delusione o del tradimento. Comincia quando ci dimentichiamo di ciò da cui stavamo fuggendo: le follie del mondo, e iniziamo ad adattarci alla vita del monastero. I problemi che pensavamo di aver lasciato alle spalle—perché credevamo che fossero solo “problemi del mondo” e non dentro di noi—riappaiono. Questo ci scuote. Invece di riconoscere che questi problemi sono le nostre contraddizioni interiori, ci sentiamo traditi: ci aspettavamo, per miracolo dello zen, del maestro, del monastero o della nostra mente, che scomparissero, e invece sono ancora lì. Iniziamo a proiettare le nostre frustrazioni sulla comunità, il Sangha residente o meno.
Cominciamo a notare le imperfezioni della comunità: il cibo perde il suo fascino; il lavoro sembra ripetitivo e monotono, senza creatività né sfide; la routine del monastero e dello zazen settimanale diventa sempre la stessa. Le persone non sono più così gentili come all’inizio. Apparentemente stanche, grintose, a volte inavvicinabili. Alcuni sembrano davvero turbati: come può succedere in un monastero che doveva essere puro? La routine, la stanchezza, le restrizioni che ci limitano, non c’è spazio, non c’è tempo, cominciano a pesarci. Siamo esausti, e ci sembra di ridurci in polvere, privi di personalità. Siamo diventati monaci per lasciare andare ogni attaccamento, ma ora essi risaltano più che mai. Notiamo la stanchezza dei praticanti più anziani, la mancanza di energia, e iniziamo a domandarci se l’insegnamento dello zen o del maestro sia davvero così illuminante.
Le parole degli insegnanti iniziano a sembrare confuse e poco comprensibili, e talvolta ci paiono sospettosamente simili a quelle della religione da cui pensavamo di esserci allontanati. Li vediamo inciampare e commettere errori, e se non li abbiamo visti di persona, ne abbiamo comunque sentito parlare. Se non li abbiamo visti né sentiti, allora gli insegnanti sembrano un po’ troppo perfetti; c’è qualcosa di sospetto e persino coercitivo nella loro compassione. Sono davvero reali? Poco a poco, una sensazione di disillusione e di tradimento ci pervade. Pensavamo che fosse qualcosa… ma si è rivelato diverso. E perché nessuno ci ha avvertito?
Tutte queste percezioni, per quanto disturbanti, contengono una verità. Quando le esprimiamo, nessuno cerca di convincerci del contrario. Gli anziani della comunità possono diventare difensivi, ma non possono davvero contraddire ciò che diciamo. Eppure, la verità di tutto questo non piega completamente ciò che proviamo: traditi e delusi. L’unica cosa che lo spiega è il nostro dolore interiore. Per un attimo, ci sentivamo meglio, come se finalmente avessimo trovato ciò che cercavamo, e ora ci sentiamo peggio di prima. Se questo non funziona come vita perfetta, cosa potrebbe farlo? Se siamo fortunati, e continuiamo a praticare sia il Sangha che Zazen, alla fine realizziamo che, sebbene la comunità sia imperfetta, siamo noi, non la comunità, la fonte della nostra sofferenza.
Che arrivi presto o dopo molti anni, e che si manifesti in modo drammatico o silenzioso, il senso di tradimento o delusione verso la nostra pratica Zen o le scelte fatte lungo il cammino è un passaggio che, inevitabilmente, dobbiamo affrontare da soli. Quando ci sentiamo profondamente feriti o disillusi dalla comunità, è difficile accettare l’idea che il problema non sia tanto ciò che vediamo, ma il modo in cui lo vediamo. I membri più anziani raramente ce lo diranno. Sanno che non ascolteremmo, e sanno anche che, se lo dicessero, rischierebbero di apparire come difensori del sistema, perdendo così la nostra fiducia. In realtà, molti di loro non ne hanno nemmeno piena consapevolezza: anche loro, a volte, sono confusi, incerti su dove finisce la comunità e dove comincia il vero cammino interiore. Per questo, ci sopportano con pazienza, rispettano le nostre reazioni, ma in quella fase c’è poco che possano realmente fare. E se la delusione è profonda, se coincide con una crisi personale, è facile che la rabbia ci porti ad allontanarci, talvolta bruscamente. Questo accade, raramente ma con forza. E quando succede, è una vera perdita, per tutti.
Cominciamo a renderci conto che molte cose sono accadute dentro di noi, senza che ne fossimo consapevoli. Siamo arrivati alla comunità spinti dal desiderio di pace, immaginando, più o meno consapevolmente, una sorta di rifugio ideale, forse persino un’utopia spirituale in cui, attraverso la pratica, saremmo diventati persone illuminate, finalmente libere dai nostri problemi. Pochi di noi osano pensarlo apertamente, ma molti lo portano dentro come un’aspettativa silenziosa, mai veramente messa in discussione. E poi, lentamente, la realtà si mostra per com’è: la comunità non è un luogo perfetto, né privo di attriti. Non troviamo quella serenità cristallina che avevamo immaginato, né la versione “migliorata” di noi stessi che forse speravamo di diventare. Al contrario, nella quiete della pratica, e nella sua intensità silenziosa, iniziamo a vedere più chiaramente ciò che c’è dentro di noi: turbamento, desiderio, contraddizione, rabbia, confusione. Tutto ciò che credevamo di lasciare fuori ci raggiunge nel silenzio del cuscino. L’illuminazione, o almeno l’idea che ce ne eravamo fatti, appare improvvisamente lontana, forse persino illusoria. Ci sentiamo più spiazzati di quando siamo partiti.
Eppure, proprio in questo momento di crisi, qualcosa si apre: riconosciamo che il cammino è molto più profondo, più vasto, più reale di quanto avessimo immaginato. Non stiamo andando verso un ideale… ma verso la verità.
Prima o poi, entriamo in una nuova fase del cammino. Cominciamo a esplorare in modo più onesto, senza l’idealismo iniziale, la vera natura del nostro impegno verso la pratica e la comunità. È un passaggio delicato e complesso. Grazie alla pratica, che non abbiamo abbandonato, ora abbiamo accesso a parti più profonde della nostra mente. E con esse emergono in modo più nitido anche i nostri dubbi, le ferite irrisolte, la confusione. Ci sono giorni in cui sentiamo con forza di voler proseguire, forse per sempre: prendere i voti, consacrare la nostra vita al cammino, perché non esiste nient’altro di più autentico. Ma ci sono anche giorni in cui desideriamo andarcene, allontanarci da tutto, e da tutti. Ci sentiamo confusi, tirati in direzioni opposte. Ci sono tante cose che vogliamo, e non tutte sembrano conciliabili.
Questo stadio è difficile. E deve esserlo.
(Prosegue nel prossimo Blog)
Nel Dharma
Tetsugen Serra