Il Silenzio nello Zen
Tutte le newsL’impronta primitiva del buddhismo non fu quella di una religione organizzata e sostenuta, ma piuttosto quella di un percorso spirituale che avrebbe dovuto condurre le persone verso una condizione di totale libertà. Lo zen non vuole persuadere per mezzo di parole il cui uso è rigidamente delimitato dalle regole semantiche. Il senso delle parole, per lo più, rimanda a eventi e situazioni del mondo; Nagarjuna parla di altro: palesa una Verità che si sottrae alle forme logiche codificate, dato che queste ultime, in rapporto al fondamento assoluto, perdono la loro pregnanza e denunciano la loro inutilità.
Lo zen vede nel silenzio un percorso al rinnovamento della mente.
Secondo Nâgârjuna la mente produce immagini delle cose non corrispondenti affatto alla natura ultima dei fenomeni, costituita dalla Vacuità di ogni apparenza, Śūnyatā, Ku….che come sappiamo non è vuoto… ma insostanzialità.
Iniziamo a parlare del silenzio con il Poeta di Haiku Matsuo Basho.
Matsuo Bashō vissuto alla fine del 1600 è stato un poeta giapponese probabilmente il massimo maestro giapponese della poesia haiku. Nato nella classe militare e in seguito ordinato monaco zen, divenne poeta famoso.
La sua estetica fa coincidere i dettami dello zen con una sensibilità nuova che caratterizza la società in evoluzione: dalla ricerca del vuoto, la semplicità scarna, la rappresentazione della natura, fino a essenziali ma vividi ritratti della vita quotidiana e popolare per rappresentare l’essenza dell’essere.
Una poesia
Shizuka sa ya
iwa ni shimi iru
semi no koe
Il silenzio
penetra nella roccia
un canto di cicale
Basho non solo era un maestro di haiku, ma studiò anche lo Zen sotto il maestro di nome Buccho Roshi, con il quale aveva una stretta amicizia oltre al loro rapporto insegnante studente. II rapporto tra maestro e discepolo è fondamentale nello Zen… Quando compose questo famoso haiku, viveva a Tokyo in una piccola capanna. Si racconta di questo scambio di Dharma tra Maestro e Discepolo….
Un giorno, dopo una breve pioggia, il maestro Buccho visitò Basho e, come saluto, gli chiese: “Come va la tua comprensione del Dharma in questi giorni?””. Basho rispose: “La pioggia è passata; muschio verde inumidito.”” Buccho indagò ulteriormente: “Di’ qualcosa di più.’”’ In quell’istante, Basho sentì il tonfo di una rana che salta in uno stagno, così rispose: ”La rana si tuffa/….suono dell’acqua.’” ‘ La poesia è composta da sette e cinque sillabe; essendo un poeta, Basho lo esprimeva naturalmente in modo molto ritmato secondo i principi dell’epoca….. E Buccho a questa poesia approvò la sua realizzazione. Più tardi Basho disse ai suoi studenti più anziani: “Voglio che aggiungiate una frase di cinque sillabe all’inizio di questa”. In qualche modo Basho non era soddisfatto dei versi che avevano creato e alla fine aggiunse lui stesso questo primo verso: “Vecchio stagno.”
Furu ike ya
kawazu tobi komu
mizo no oto
Vecchio stagno
una rana si tuffa
un suono d’acqua
Del Maestro Zen Sengai monaco zen (1750-1837) i cui dipinti sono diventati famosi c’è un’immagine di una rana e l’accompagna con la seguente poesia:
Il vecchio stagno Basho si tuffa Il suono dell’acqua.
Un’altra volta disegnò una rana e scrisse:
Vecchio stagno La rana salta dentro Il suono.
l’acqua” come vedete è stata eliminata….
Un altro poeta di nome Shiken Taguchi vedendo il dipinto e la poesia di Sengai si è lamentato: “Questo non è un haiku”. Sengai ha risposto: “Sì, lo so”. Ma..Voglio che tu senta che tipo di suono è.”
Non è una bella storia meditativa sul silenzio? Il Koan… Che tipo di suono è?
Nella prima poesia, il maestro Sengai dice che Basho salta dentro. È facile vedere che Sengai non vede alcuna divisione tra Basho, sé stesso e il suono dell’acqua prodotto dalla rana che salta dentro. In altre parole, la relazione soggetto-oggetto è scomparsa. Poi Sengai dice ulteriormente: “La rana salta dentro/Il suono”. Qui Sengai non esprime il suono di qualcos’altro, ma si manifesta come il suono di ogni cosa, la forma di ogni cosa, il colore di ogni cosa.
Il Buddismo è l’insegnamento del risveglio, la via dell’illuminazione. E l’illuminazione è la realizzazione dell’unità e dell’armonia tra noi stessi e l’esterno. È il modo di risvegliarsi da un brutto sogno, in cui ci dividiamo da tutto il resto, da tutti gli altri, creando ogni tipo di problema e difficoltà. In breve, l’illuminazione è realizzare questo suono, il suono di sé stessi,
il suono della propria vera natura.
Duemilacinquecento anni fa, quando Buddha vide la stella del mattino dopo sei anni di meditazione sul vero significato, sul vero volto, sulla vera natura della vita, cosa ha realizzato? Nel primo capitolo del Denkoroku (La Trasmissione della lampada), Keizan Zenji recita: “Il Buddha Shakyamuni, vedendo la stella del mattino e ottenendo la Via, esclamò: “Io e la grande terra e tutti gli esseri abbiamo simultaneamente compiuto la Via”. Che cosa significa? Possiamo dire che Basho ha visto la stella del mattino quando ha sentito il rumore dell’acqua. Allo stesso modo, il Budda Shakyamuni vide o udì il suono, qualunque fosse la sua causa.
La nostra pratica è ascoltare questo suono, vedere questa forma.
Se ascoltiamo il suono dentro di noi della nostra vera Natura il suono dell’illuminazione, vediamo la vera forma della vita. Possiamo esprimerlo in modo sofisticato: questo “suono senza suono”, questa “forma senza forma”. Questa forma senza forma non è qualcosa di trasparente che non possiamo vedere, ma piuttosto il contrario. La forma stessa di tutti noi e di ogni cosa nell’universo non è altro che questa forma senza forma. La forma dell’impermanenza.
A occuparsi della vacuità concepita dal Buddismo in relazione alle teorie della fisica quantistica è stato il fisico Carlo Rovelli che, assecondando un’opinione comune tra i fisici che si occupano di meccanica quantistica, afferma che la dottrina della vacuità così come viene concepita in particolare dal monaco buddista Nāgārjuna, che la riprende direttamente dagli insegnamenti del Buddha Sakyamuni, è identica al modo che la fisica quantistica ha di concepire la realtà, come originata da un vuoto quantistico e composta da particelle interdipendenti in un intreccio unico (“entanglement quantistico”), da non confondere attentamente col concetto di nulla e nichilismo della filosofia occidentale. Il Buddha affermava infatti che tutte le cose siano vuote di esistenza intrinseca, e cioè che tutte le cose esistono non di per sé ma perché sono in relazione con altro (dottrina della pratītyasamutpāda). Il Vuoto è il silenzio, il silenzio dell’affermazione delle cose, non il nulla.
Mediante la purificazione mentale è possibile intuire la Verità ultima e il silenzio è lo strumento adatto.
Per lo Zen la conoscenza concettuale, discorsiva, è un “errore” che affonda le sue radici nella stessa struttura del pensiero, nel quale c’è una specie di ignoranza innata, di impotenza a cogliere la realtà così com’è. Può essere solo descritta. Quest’errore è tuttavia utile e fino a che non abbiamo raggiunto un’esperienza diversa della realtà, «una revulsione del sostrato», non ne possiamo fare a meno, proprio per poterla raggiungere e quindi per superarla.
Il discorso ordinario è subordinato ai canoni della comunicazione valida nell’àmbito dei modelli socio-culturali; il «silenzio» è transculturale, poiché non è condizionato né dalla storia, né dalla dimensione spazio-temporale dei fenomeni naturali. ma.., c’è contrasto tra il silenzio del neonato, del muto, del catatonico e quello del mistico. Il primo esprime soltanto l’incapacità di comunicare, il secondo scaturisce dalla trascendenza delle usuali forme del linguaggio codificato.
Il bisogno di nominare le cose può assumere, talvolta, il senso di profanazione di ciò che deve rimanere avvolto nella sua sacralità. Il tentativo di definire una Realtà che sfugge ad ogni forma logica costituisce un atto di trasgressione nei riguardi di un segreto da custodire nell’intimità del silenzio. Tacere diventa, allora, un modo di manifestare una consapevolezza volta a proteggere l’ineffabile dalla curiosa invadenza di un intelletto che pretende di penetrare anche là dove la sua funzione appare quale indiscreta intrusione di un ospite indesiderato.
Il silenzio non è fenomeno acustico, ma atteggiamento mentale che, abbandonando ogni tendenza a interferire nell’accadere degli eventi, contempla le cose nella loro transitorietà. Ascoltando il canto degli uccelli di bosco, il tenue gorgoglio di un ruscello che scorre, il fruscio delle fronde vibranti al tocco della brezza primaverile: là c’è «silenzio», se la mente tace. I pensieri rappresentano, infatti, il vero ostacolo alla realizzazione del silenzio; mentre, se interiormente c’è uno stato di Vacuità, perfino il clamore di una folla o il frastuono delle metropoli non costituiscono affatto un problema. Il vero silenzio scaturisce dalla capacità di trasformare in serena osservazione degli eventi tutto ciò che appare, senza alcun coinvolgimento generato dal senso dell’io.
Ma il silenzio non è fede in qualcosa di inesprimibile è l’espressione stessa del tutto, la fede è ‘necessaria’ solo per chi non sa o non vuole avere l’esperienza diretta e personale del sacro.
Il mistico sente di avere una vocazione più ‘alta’ che spesso ha maturato proprio attraverso quel senso d’insoddisfazione che si prova quando le dottrine religiose e le metafisiche escogitate dalla mente discorsiva dell’uomo cadono in contraddizioni insuperabili, lottano tra di loro per una pura affermazione ‘polemica’ (quando non scatenano veri e propri conflitti…) e non escono mai dal viluppo delle sterili sottigliezze, dalle rete delle proprie assurdità e intrinseche contraddizioni. Purtroppo anche il buddhismo in alcune forme ci casca. Il mistico, l’iniziato non vuole più ‘pensare’, vuole ‘realizzare’, sperimentare e verificare in prima persona. Ma quando ‘realizza’ capisce quanto sia difficile, se non del tutto impossibile, parlare di quella Realtà transfisica usando i comuni strumenti della logica e del linguaggio.
Così il dubbio quando diviene ‘metodico’, ‘sistematico’ ma utilizzato sempre nella prospettiva di una incessante e sincera ricerca della verità può essere considerato come un positivo strumento di progresso conoscitivo non solo nel campo della scienza ma anche in quello della ricerca spirituale è da considerare come il necessario preludio dell’esperienza mistica.
Pertanto se la scienza e la fede (in realtà ‘le fedi’…) sono in rapporto d’insanabile opposizione la scienza e l’esperienza spirituale non lo sono affatto. Il dubbio che fa crescere la scienza è lo stesso dubbio che dalla fede religiosa può e deve condurre l’uomo alla filosofia della religione (che si serve del dubbio per trascenderne le forme storiche contingenti) e da questa alla diretta esperienza all’esperire vivere la realtà. Il fatto che in occidente sia prevalsa storicamente una forma religiosa tutta ‘fideistica’, irrazionalistica e di struttura dogmatica ha finito per rendere irriducibili ed inconciliabili le due diverse ‘forme’ dello spirito, le due diverse vie di ricerca: quella tutta ‘umana’ della scienza che indaga criticamente la natura ‘materiale’ de mondo diffidando di ogni ‘esperienza’ metafisica e quella ‘religiosa’ che si affida ai dati di una qualche rivelazione
La comprensione del Dharma è assolutamente inadeguata a surrogare l’esperienza. In gioco nello zen c’è la spiegazione dei contenuti filosofici del Dharma, non la spiegazione di quella sensibilità per quanto raffinata,..Ma la realizzazione la trasformazione della mente in quei contenuti. L’esperienza di “Ciò che è”, quel “Ciò” che non ha bisogno di parole per mostrarsi perché sono divisorie, discriminatorie separano l’assoluto il ku la vacuità dice tutto di sé nel silenzio.
Il compito impossibile dei koan è portare la mente al silenzio della mente discriminante, illusa di sapere, ma lontana dall’esperire… il compito del Koan è di far tornare a danzare la tua mente seduta nella sua zona di confort paludata dalle sue certezze e vincolata da ristrettezze espressive… Un compito Impossibile qualcuno dice anche tra i buddhisti… solo la conoscenza della mente può realizzarlo dicono alcuni.
Una delle cose interessanti della tradizione zen è che non ha paura dell’impossibile. In realtà piuttosto lo apprezza. Il libro Zhuangzi dell’omonimo maestro Taoista Zhuangzi (antenato del Ch’an-zen cinese) inizia con un pesce gigante che vola nel cielo e diventa un uccello, e pensi, Beh, siamo sicuramente in un nuovo territorio di follia qui. I veri maestri zen non ti invitano alla retorica, non ti insegnano il “cerimoniale del buon praticante zen” Ma ti invitano all’impossibile, alla follia della mente ordinaria ad un impasse dove non potendo più usare la mente logica convenzionale puoi solo rispondere con una nuova visione oltre ogni schema, sul terreno della trasformazione o del risveglio dell’IMPOSSIBILE. Koan “Come tirare fuori l’oca dalla bottiglia senza rompere né l’una né l’altra?”.
Quando affronti un paradosso del Koan…pensi di essere nell’ impossibile, è allora che qualcosa nel cuore si apre con i problemi impossibili e i compiti misteriosi dell’Illuminazione. lo Zen più che la spiegazione di come la mente arrivi ad essere egoica e il condizionamento che ne deriva si occupa, attraverso la pratica di Shikantaza e koan di portarti al silenzio… ad un impasse dove non potendo più usare la mente logica convenzionale puoi solo rispondere con l’Urlo liberatorio “” Kuazz”” la nuova visione inclusiva e assoluta, sul terreno della trasformazione del risveglio dell’IMPOSSIBILE..