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Chi ha paura dell'illuminazione?

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IN OCCIDENTE la parola “/illuminismo/illuminazione” coltivata dalla modernità si allontana
dalla negazione ascetica del mondo, caratteristica delle religioni tradizionali, preferendo un’affermazione liberatrice della vita umana in questo mondo, mentre gli insegnamenti del Buddha nel buddhismo tradizionale sembrava che fossero destinati a negare e trascendere la vita umana.
“L’illuminazione” nella visione non buddhista ma occidentale, al contrario, era secondo l’influente versione di Immanuel Kant – uno stato di “maturità” negli individui e nelle comunità che dava loro il coraggio di pensare con la propria testa invece di affidare le decisioni cruciali della loro vita a qualcun altro. Forse diversa dalla visione Zen di Illuminazione? il concetto buddhista di Bodhicitta, è il “pensiero o aspirazione all’illuminazione”. Il pensiero dell’illuminazione è il concetto di una forma di vita ideale, che, quando comincia a prendere forma nella mente, dà origine a una distinzione tra il nostro modo di vivere attuale e un altro modo di vivere a cui questo “pensiero” ci chiama inserito perfettamente nella totalità della vita, non in un limbo che la trascende. Man mano che matura nella mente, un pensiero di illuminazione diventa un’aspirazione, una forza motivazionale che può consentire un certo grado di movimento trasformativo nella direzione dell’ideale. I buddhisti riconobbero relativamente presto nella loro tradizione l’importanza di questo pensiero. Per un praticante buddhista senza alcuna concezione di una vita migliore emancipata dalla sofferenza, come insegnava il Buddha, una motivazione all’autotrasformazione, tutto. Riconoscendo il ruolo centrale svolto da Bodhicitta, i testi buddisti iniziarono a esaltare il pensiero dell’illuminazione e a focalizzare un’attenzione significativa su questo punto di partenza iniziale nella ricerca. Lo Zen ne fecel’aspirazione centrale di arrivo.

Nel Buddhismo la parola illuminazione o risveglio o Satori (come usa definirla lo zen) è ricorrente eppure, tra i buddisti contemporanei, sia orientali che occidentali, si discute molto poco sul significato o sulla possibilità dell’illuminazione. La domanda “Cos’è l’illuminazione?” viene accuratamente evitata, acquisendo, in effetti, uno status quasi tabù tra i buddhisti, soprattutto Zen, proprio nello zen che fa dell’illuminazione silenziosa o meno il fulcro della pratica Qui e Ora, più di altre scuole buddhiste. Ci sono ragioni interessanti e spesso persuasive per questo divieto inespresso di indagare sul significato dell’illuminazione, tra cui le seguenti:

Nelle prime fasi della pratica del buddismo o buddhismo zen, qualunque sia la sua concezione che potremmo avere dell’illuminazione sarebbe fuorviante, anche palesemente falsa, e negli stadi più avanzati della pratica non avrebbe senso nel porre la domanda.

Qualche risposta che potremmo dare alla domanda “Cos’è l’illuminazione?” reificherebbe inevitabilmente lo scopo della ricerca spirituale, la ridurrebbe a una cosa, e considerarla qualcosa di più sostanziale e definibile di quanto potrebbe mai essere, eppure è nel Buddhismo l’errore per eccellenza di una vita non illuminata.

Qualsiasi concetto di illuminazione che potremmo considerare come obiettivo presupporrà inevitabilmente una fastidiosa dicotomia temporale tra il nostro presente non illuminato e il nostro futuro illuminato sperato, quindi l’obiettivo è sempre proiettato molto più avanti di noi nel tempo ed è, di conseguenza, mai presente nel qui e ora.

In ogni caso, riflettere su un obiettivo lontano in teoria per i buddhisti (ma qui e ora per lo Zen) è uno spreco di energia, energia che sarebbe molto meglio applicarla alla pratica… ma quale pratica? Invece il consiglio è sempre quello di calmare il flusso del pensiero ossessivo, mettersi in uno stato di presenza consapevole quiescente e lasciare che l’illuminazione si prenda cura di sé stessa.

Queste e altre sono le ragioni per cui i praticanti Zen crescono senza aspirazione alla realizzazione/Risveglio/Illuminazione e deambulano tra uno zazen e l’altro, tra un ritiro zen (quando sono libero….) e un po’ di impegno al Tempio.

Anche se probabilmente potremmo estendere questo elenco di ragioni per evitare la domanda “Cos’è l’illuminazione?”, nella nostra mente di seri praticanti Zen questa continua a girare, e non pensarci spesso vuole dire rimanere in attesa della sua manifestazione o del suo inveramento, che equivale comunque ad una divisione tra pratica e realizzazione. La domanda “Cos’è l’illuminazione?” (o qualsiasi versione equivalente della domanda) che tu ne cerchi la risposta o che stia seduto aspettandola, è tra le domande più importanti che puoi porre a te stesso. I Koan sono le domande che ti aiutano a vivere questa risposta già in noi. Come dice il Buddha: tutti siamo già dei Buddha.
Come ben sanno i seri praticanti buddhisti e Zen senza una concezione motivazionale efficace di uno scopo nella vita, non ci sarebbe mai l’inizio di una pratica trasformativa. Dōgen la chiama Kokoro Zashi dicendo che se anche tutti hanno l’uguaglianza di “potenziale” purtroppo non tutti sviluppano la “capacità” di praticare, per molte ragioni… la differenza la fa L’aspirazione al risveglio… Aspirazione Kokoro Zashi possiamo tradurla “la direzione profonda del cuore” o “dedicazione profonda e sincera”. Dōgen trasforma la parola come nel suo meraviglioso “Shobogenzo” in realizzazione stessa, per Dōgen, come per i Koan la parola non è spiegazione ma veicolo e realizzazione stessa dell’illuminazione: pratica e illuminazione non è limitato allo zazen ma a tutto ciò che compie questa trasformazione alchemica, gli elementi sono gli stessi, ma non più gli stessi.

L’incapacità di anteporre un pensiero/aspirazione di illuminazione alle nostre attività di integrare le nostrevite attorno a un’identità che noi stessi abbiamo scelto è dovuta all’anteporre altri nostri desideri e aspirazioni, che per quanto nobili siano fanno passare in secondo piano la realizzazione di una vita illuminata e saggia. Questo anteporre altri desideri all’illuminazione è dovuto ai condizionamenti della nostra mente, condizionamenti iniziati sin dalla più tenera età. Solo attraverso una pratica lunga e spesso insicura per la nostra mente, come propongono alcune scuole buddhiste, o una praatica perigliosa ma diretta come propone lo Zen, possiamo far si che nessun desiderio si anteponga a quello di Illuminazione, di vera trasformazione a beneficio di tutti gli esseri. E’ proprio questo ideale di illuminazione al servizio del “beneficio di tutti gli esseri” che può lasciare indietro ogni altro desiderio personale di realizzazione. Per questo la figura del Bodhisattva assume un ruolo così importante. Se fosse solo per la nostra realizzazione personale, probabilmente ci accontenteremmo della vita che abbiamo, o di mettere in atto qualche desiderio di miglioramento, ma di fronte alla sofferenza del mondo l’aspirazione all’illuminazione come strumento centrale di aiuto è la motivazione più forte al Risveglio.

Consideriamo la situazione di coloro che hanno deliberato e in una certa misura adottato il pensiero Illuminazione e che, inoltre, valutano i propri desideri alla luce di questa immagine del bene. Tuttavia, quando questa valutazione non è fortemente motivata, abbastanza da influenzare le scelte effettive, queste persone si ritrovano divise e giudicate in base allo standard che loro stesse hanno adottato di bene e male. In questa situazione, l’immagine di sé che dovrebbe guidare la propria vita non è sufficientemente sviluppata e troppo debole per motivare o dirigere la pratica quotidiana.
Perché gli ideali ultimi ci sembrano irraggiungibili? La prima delle numerose ragioni della nostra incapacità di raggiungere il livello più elevato delle nostre aspirazioni implica un’indagine sul carattere stesso degli ideali. Sebbene gli ideali siano immaginati nella mente, questi atti di immaginazione non sono semplicemente fantasia. Ciò che immaginiamo negli ideali veri sono immagini del bene o del male, dell’armonia o dell’incertezza che realisticamente ci appartengono, quelle per il cui perseguimento favoriamo le più alte forme di eccellenza di cui siamo di fatto capaci.

Un atto di immaginazione in cui fantastichiamo per noi stessi un’identità che non potremmo ottenere è tutt’altro che ideale.

Ma alcuni ideali come l’illuminazione sono davvero in linea con il nostro background, il nostro carattere e il nostro potenziale in questo particolare momento e luogo? Tuttavia, ogni volta che accade che attraverso la pratica, lo sforzo energetico o qualche altro meccanismo di cambiamento modifichiamo noi stessi andando verso un ideale così attuale e plausibile, accade qualcosa di straordinario che inizia a trasformare dentro di noi pensiero e azione ed è come ci risvegliassimo in un giorno gioioso, positivo e pieno di compassione amorevole per tutti.
L’impegno nella pratica inizia sempre perché c’è una ragione per farlo, un pensiero motivante che ispira un’azione disciplinata e costante di pratica. Nessuna arte ne può fare a meno. Questo motivo ragionato o emozionale è la consapevolezza che potrebbero esserci intuizioni sul significato delle nostre vite e modi di vivere le nostre vite che sono profondamente superiori a quelli che mostriamo attualmente nell’afonia quotidiana.
Il punto della pratica buddhista è che questa motivazione potrebbe sfociare in una qualche forma di risveglio, in qualche trasformazione rivoluzionaria: nell’illuminazione.

Insieme alla domanda “Cos’è l’illuminazione?” nella mente del praticante si affollano molte domande come:
“Quali ideali dovrei perseguire nella mia vita?”
“Che tipo di vita dovremmo vivere?”
“Chi o cosa dovrei sforzarmi di diventare per essere un buon buddhista?”
“Che tipo di comunità di Sangha dovremmo aspirare a creare?”
““Cosa significherebbe se tutte le persone si rendessero conto delle realtà e delle possibilità della vita
umana illuminata?

Le risposte a una qualsiasi di queste domande generali forniscono un’immagine ideale in vista della quale attiviamo le nostre vite e avviamo una qualche forma di pratica trasformativa. In questo senso è quando consciamente o no ci poniamo la domanda “Cos’è l’illuminazione?”, almeno implicitamente, per poter trovare una risposta abbastanza convincente da metterci sulla via della pratica di cambiamento. Diamo inizio a una disciplina o a una pratica sulla scia delle motivazioni fornite da questi interrogativi fondamentali, pur sapendo che l’illuminazione non è qualcosa che comprendiamo adeguatamente all’inizio e che poi procediamo a raggiungere concentrandoci interamente sui mezzi per raggiungerla come fosse un obiettivo già noto. L’immagine o concezione dell’illuminazione e la sua pratica sono correlative.

Appartengono insieme e funzionano in reciprocità e quando cambia la comprensione di ciò che cerchiamo, cambia anche il modo in cui lo cerchiamo, e quando cambia la nostra modalità di pratica, cambiano anche la sua logica e il suo scopo. La concezione dell’illuminazione come scopo della pratica e la pratica stessa vengono entrambe corrette e reimmaginate l’una alla luce dell’altra in una continua reciprocità.

Una pratica spirituale seria include un’educazione continua su ciò che dovremmo perseguire nella vita certamente nella visione ampia buddhista, ma soprattutto nella nostra visione
personale di pratica, perché non è il buddhismo che pratica… ma siamo noi che pratichiamo. Ciò è particolarmente importante poiché le forme di pratiche serie e continuative più
efficaci sono quelle che sono ben allineate con i caratteri individuali di coloro che le cercano, cioè allineate con i loro particolari background, storie, capacità, punti di forza,
debolezze, inclinazioni, amori e orientamenti. Poiché non esiste quindi un unico stato di “pratica “da perseguire, se non continuiamo a meditare su ciò che cerchiamo di incarnare
nella nostra vita, potremmo benissimo perseguire un obiettivo inappropriato e inadeguato attraverso pratiche fuori sincrono, con chi siamo noi, molti praticanti anche dopo anni di
pratica si trovano in una doppia personalità: la loro mente e la mente della pratica, giustificando la loro mente come attaccamento egoico e mettendola a tacere, creando così, non
solo una doppia personalità discriminante, ma allontanandosi prima o poi dalla pratica perché non più sostenibile dalla personalità inespressa. Tutti i grandi maestri Zen vivevano la
pratica, lo zen, all’interno della loro personalità spesso anche molto dirompente e affermativa.

Le più grandi figure della tradizione buddhista dal Buddha a Nāgārjuna, Dōgen a Shinran erano individui le cui risposte alla domanda “Cos’è l’illuminazione?” andarono oltre ciò che le loro tradizioni esponevano nel loro tempo, in una strada tutta personale. Riuscirono a riformulare sia l’immagine dell’Illuminazione sia il carattere della sua pratica in modo così persuasivo da formare nuove tradizioni buddhiste, poiché non esiste un solo tipo di vita che soddisfi i criteri di “illuminazione” per tutte le persone in tutte le circostanze, come fosse qualcosa di prescritto universale, un entità che ci aspetta quando ci risvegliamo, ma l’Illuminazione siamo noi, ricordiamo le parole di Dōgen nello Shōbōgenzō: Non è che tutti abbiamo la natura di Buddha, ma è che tutti siamo la natura di Buddha, perciò spetta a ciascuno di noi la responsabilità di affrontare seriamente questa domanda e di vivere la nostra vita alla luce delle nostre migliori risposte di pratica.
Occorre mantenere la domanda “Che cos’è l’illuminazione?”, mantenendola aperta e viva come vibrante indagine di pratica e come forma di disciplina contemplativa, evitando le tendenze dogmatiche che emergono quando le tradizioni diventano inflessibili, statiche e non più attente alle condizioni e alle possibilità vive nel loro tempo. Per un praticante Zen monaco e Bodhisattva è la capacità di inverare la propria Iluminazione/Risveglio/Natura di Buddha nella propria contemporaneità di vita, diversamente non
sarebbe illuminazione. Bodaishin菩提心 per lo Zen (Bodhicitta in sc.) è il termine che designa la “Mente di illuminazione” o “Mente del Risveglio” dove indica l’intenzione del Bodhisattva di conseguire l’Illuminazione per la salvezza di tutti gli esseri senzienti, la grande determinazione a uscire dalla sofferenza non separata dai fenomeni della vita.

Come praticanti Zen siamo chiamati a prendere come orientamento alla pratica l’iniziale l’affermazione Zen di Bodhidharma secondo cui l’illuminazione “non dipende dalla lingua e dalla cultura” e che l’illuminazione è intesa come una “pura esperienza” di “cose così come sono” prima dell’effetto modellante del linguaggio.
Ma potremmo valutare tale affermazione dal punto di vista di una pratica profonda zen del Bodhisattva.
Tale valutazione inizia considerando le due principali interpretazioni della relazione tra linguaggio e illuminazione, già affrontate da Dōgen. Al fine di articolare una comprensione del linguaggio e dell’esperienza spirituale che vada oltre… una riflessione sulle possibilità che l’illuminazione Zen comporta anche il risveglio alla forza e alla sottigliezza del linguaggio piuttosto che alla sottomissione a esso, a favore di tutti gli esseri: Upaya (i mezzi opportuni).

Per questo non dobbiamo avere paura a mantenere in noi la domanda “Che cos’è l’illuminazione?”.

UBI
Monastreo ZEN
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