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Le diverse forme di Buddhismo

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Le diverse forme di Buddhismo

Il Buddhismo per gli occhidentali
Spesso, nell’immaginario collettivo occidentale, il buddhismo si manifesta attraverso forme specifiche, come quelle del buddhismo tibetano, Zen e Theravāda. Purtroppo, molte scuole del Mahāyāna dell’Asia orientale rimangono sconosciute in Europa e negli Stati Uniti, anche perchè, spesso, il termine “buddhismo” evoca principalmente immagini legate alle pratiche tibetane, una percezione che potrebbe non riflettere pienamente la diversità di questa antica tradizione.

Un’idea diffusa e fuorviante è quella di un buddhismo “puro”, privo di “superstizioni”, trasmesso miracolosamente attraverso le culture fino al mondo occidentale. Questa concezione, relativamente recente, è nata da riforme in Asia, influenzate dalla colonizzazione, dalla necessità di modernizzazione e dall’influenza del protestantesimo, cercando di adattarsi alle sensibilità occidentali.
Dal punto di vista storico e sociologico, il buddhismo non costituisce un’entità singola, ma piuttosto una varietà di pratiche svolte da individui. La diversità è ulteriormente evidente nelle credenze e nelle pratiche di coloro che si sono convertiti in tempi recenti — particolarmente quelli di origine europea o statunitense — che differiscono notevolmente da quelle dei buddisti di origine asiatica, sfidando così l’idea di un buddhismo omogeneo e sottolineando le sfumature culturali e individuali presenti nella pratica.

È importante esaminare criticamente ciò che sappiamo sul buddhismo. Alcune idee sono errate, mentre altre, seppur parzialmente valide, sono eccessivamente semplificate, rischiando di sminuire la ricchezza della tradizione buddhista.
L’imposizione di una falsa ortodossia mina l’essenza del buddhismo, che abbraccia naturalmente una vasta gamma di interpretazioni e pratiche. Nell’approfondirne l’evoluzione, emergono chiaramente le complesse interazioni di eventi storici, adattamenti culturali e interpretazioni individuali che hanno plasmato la percezione moderna di questa antica filosofia (o scuola di pensiero?).

Ma il Buddhismo è una religione? Una filosofia? I Buddhisti “credono” in Buddha?

Definire il termine “religione” è un problema abbastanza complesso, dibattuto e senza una soluzione generalmente condivisa, in quanto è il concetto stesso a cui si rifà la parola “religione” che cambia, a seconda dei contesti culturali in cui questa viene utilizzata. Considerando anche la vastità di interpretazioni, credenze e pratiche che sono identificate come “buddhiste”, ne consegue che anche discutere sul se il Buddhismo sia o mena una religione può considerarsi un compito arduo.
Accademicamente parlando, il buddhismo viene accostato spesso al gruppo delle “religioni monteistiche“, poiché è un sistema religioso in cui però manca il credo in un essere (o forza creatrice) da cui abbia origine il tutto; intendendo la parola “religione” nel suo significato più ampio, ovvero “un insieme personale o un sistema istituzionalizzato di atteggiamenti, credenze e pratiche religiose (cioè che riguardano o manifestano una devozione fedele a una realtà ultima o a una divinità riconosciuta)” [merriam-webster dictionary].
Quel che è quindi certo è che i buddhisti non “credono” — nel senso tradizionale del termine — nel Buddha come i cristiani “credono” nel Dio abramico. Ma, piuttosto, accettano gli insegnamenti del Buddha come guida per comprendere la realtà e ridurre la sofferenza.

Anche il modo in cui questi insegnamenti vengono recepiti è un importante argomento di riflessione. Da questo punto di vista, interessante è l’opinione di Dzogchen Ponlop Rinpoche — uno dei più importanti studiosi buddhisti tibetani —, il quale afferma che “il buddhismo può essere praticato come una religione, ma non è quello che ha insegnato il Buddha. La differenza sta nell’indagine — in contrapposizione alla fede — che si mette in campo. Se ci riferiamo agli insegnamenti del Buddha come a risposte definitive che non hanno bisogno di essere esaminate, allora stiamo praticando il buddhismo come una religione.”

Ugualmente interessante può essere anche la riflessione su una scuola buddhista in particolare, quella del buddhismo Zen.
Questa scuola è infatti indicata, in modo intercambiabile, sia come “religione” sia come “filosofia”, offrendo ai praticanti la flessibilità di adottare la terminologia che più si adatta alla loro interpretazione. Tuttavia, la classificazione dello Zen come filosofia o religione rimane irrilevante poichè, fondamentalmente, si discosta dalle categorizzazioni convenzionali in quanto si sforza di liberare la mente da vincoli linguistici e logici, andando così a trascendere i quadri filosofici o religiosi ordinari. Lo Zen costituisce una forma d’arte che facilita una profonda introspezione nella natura fondamentale dell’esistenza di ognuno, permettendo agli individui di percepire la natura intrinseca del loro essere. Di conseguenza, la pratica Zen traccia un percorso di trasformazione, guidando gli adepti dalle catene della schiavitù mentale verso la distesa liberatoria della consapevolezza di sé. Al centro della pratica dello zen c’è, infatti, la meditazione, che serve come mezzo fondamentale per raggiungere uno stato di coscienza elevato e la tranquillità interiore.

Si può quindi dire che, la sfida nel definire il Buddhismo come religione o filosofia sottolinea la sua natura unica, invitando a riflettere sulla peculiare intersezione tra religiosità, spiritualità e pratica(?) filosofica.

Il “Buddha Storico”, tra mito e realtà.

Il fatto che la figura nota come Buddha sia nata, abbia vissuto e sia morta non è un dato messo in discussione dagli accademici, ma tutte le fonti che abbiamo oggi sono frutto di una trasmissione e un’evoluzione lunga secoli, che ha reso la realtà difficilmente distinguibile dal mito. Sicuramente, tutte le diverse scuole di pensiero buddhiste si sono sviluppate dopo la sua morte, e hanno tutte l’obiettivo di seguire il suo esempio e di trasmettere quelli che affermano essere i suoi insegnamenti, anche se il contenuto di questi insegnamenti ha subito anch’esso svariati cambiamenti con il passare del tempo. Secondo la tradizione, questa è la sua storia.

Siddharta Gautama, noto come Shakyamuni (il saggio degli Shakya), nacque nel VI secolo a.C. — mentre studi recenti ipotizzano circa un secolo più tardi — in un piccolo regno ai piedi delle colline dell’Himalaya, nel moderno Nepal. Suo padre, capo del clan Shakya, sperava che il figlio diventasse un monarca, ma tra le tante profezie dei Bramini, una in particolare affermava che sarebbe anche potuto diventare un grande saggio e seguire un cammino spirituale.
Il padre, desideroso che Siddharta lo succedesse (alla?) nella guida del regno, lo cresce in un ambiente protetto, addirittura nascondendo i fiori appassiti per preservarlo dalla consapevolezza della transitorietà. Nonostante una vita lussuosa e un matrimonio che gli dona un figlio, persiste in lui un’ombra interiore.

Sarà durante un’escursione fuori dalle mura domestiche che Siddharta incontrerà la malattia, la vecchiaia e la morte, esperienze che lo sconvolgono. Chiede spiegazioni e apprende che tutti sono soggetti a queste inevitabilità, anche lui. Questo pensiero si insinua nella sua mente e, dopo aver incontrato un asceta, intravede la possibilità di liberarsi dalla sofferenza rinunciando ai piaceri materiali. Tornato al palazzo, saluta la famiglia, si rasa i capelli e indossa abiti da eremita. Inizia così, a 29 anni, un percorso alla ricerca della liberazione, esplorando diverse scuole ascetiche. Dopo aver provato vari maestri, Siddharta abbraccia l’ascetismo radicale, ma, non trovando liberazione, dopo sei anni di austerità estrema, sceglie di perseguire una via di mezzo tra l’ascesi e una vita dedita ai piaceri terreni.

Si siede sotto l’albero della Bodhi, determinato, finché, dopo un giorno e una notte, raggiunge il Grande Risveglio. Realizza che ciò che cercava non era mai andato perduto, e il suo risveglio è la comprensione della realtà così com’è, senza lotta o ricerca.
Per sette settimane, Siddharta gode della libertà e della tranquillità della liberazione, ma realizzando l’importanza di trasmettere questa comprensione, inizia a insegnare le quattro nobili verità:

• La prima verità afferma che tutta l’esistenza è caratterizzata dal Dukkha, che significa insoddisfazione e sofferenza. Il Buddha sottolinea l’importanza dell’introspezione diretta sulla natura dell’esistenza, rivelando che anche i momenti di grande felicità possono trasformarsi in sofferenza quando ci attacchiamo ad essi o quando quando questi finiscono.
• La seconda nobile verità, il dukkhasamudhaya, affronta l’origine di questo Dukkha: la sete di piacere, il desiderio continuo e l’ignoranza, da cui deriva questa sete, poiché è il non conoscere davvero come funziona la realtà che porta alla sete, che a sua volta causa la voglia di possedere e l’attaccamento.
• La terza nobile verità, il dukkhanirodha, sottolinea la possibilità di cessare il Dukkha. Riconoscendo che il dolore può cessare quando si comprende che l’insoddisfazione è inevitabile, il Buddha propone di seguire un mārga, un sentiero: l’ottuplice sentiero.
• La quarta nobile verità, quindi, presenta l’Ottuplice Sentiero come la via per raggiungere la cessazione del Dukkha. Questo sentiero comprende retta visione, retta intenzione, retta parola, retta azione, retto modo di vivere, retto sforzo, retta presenza mentale e retta concentrazione. La Sangha, la comunità di seguaci del Buddha, pratica la meditazione viaggiando e chiedendo elemosina per il cibo, seguendo questo sentiero verso la liberazione.

Per anni, il Buddha cerca di comunicare e farsi capire nelle città dell’India, insegnando che tutto cambia continuamente, niente è stabile o duraturo. Questo concetto è espresso nella legge dell’impermanenza (anitya). Tutte le cose sono soggette a cambiamenti e trasformazioni, e questo costituisce la natura del Dukkha, poiché tutte le cose manifestano una natura di sofferenza quando sono avvolte nell’ignoranza. Questo accade quando siamo immersi nella dimensione samsarica e convinti dell’esistenza di soggetti separati, individualità distinte, di fronte a un mondo di oggetti distinti e immutabili, ai quali cerchiamo di attaccarci. Ma ogni elemento di realtà è privo di un sé autonomo e permanente (concetto espresso dal termine anattā ). [Il concetto di anatta, o mancanza di un sé permanente, può essere spiegato considerando il cosiddetto ‘sé’ non come un’entità fissa, ma piuttosto come un processo in continuo cambiamento da momento a momento. Questo ‘sé’ è composto da elementi, nessuno dei quali, da solo, potrebbe essere considerato un sé. Non è tanto che il ‘sé’ non esiste, quanto che non è quello che comunemente pensiamo: un’entità discreta e indipendente, ultimamente separabile o distinguibile dalla rete di relazioni in cui è immersa. Fondamentalmente, esiste solo il mutevole intreccio di relazioni a cui erroneamente attribuiamo grande valore e a cui ci aggrappiamo. (Jeffery D. Long)]
Questo è l’insegnamento fondamentale della Via buddhista, chiamato Nairātmyavāda, la Via del Non-sé,  la quale afferma che ogni elemento della nostra esperienza è privo di consistenza autonoma o sostanzialità, essendo dipendente da cause e condizioni.

Infine, il Buddha raggiunge il Grande Nirvana, liberandosi dal ciclo delle nascite e rinascite, il Saṃsāra. La sua figura diventa un punto di riferimento per molti fedeli, e il Buddhismo si diffonde ampiamente. Il concetto chiave di azione con intenzione, fondamentale nel buddhismo, evidenzia che non siamo ciò in cui crediamo, ma piuttosto ciò che facciamo. Questo concetto sottolinea l’importanza dell’azione in conformità con gli insegnamenti del Buddha, oltre a dichiararne l’appartenenza.


Origine delle prime scuole Buddhiste

Bisogna evitare di saltare direttamente dal Buddhismo “puro”, cioè quello del Buddha stesso (come lo immaginiamo), al buddhismo tibetano, Zen e Theravāda come se derivassero direttamente da questa forma originale; si sono infatti evoluti attraverso l’influenza delle varie culture ospitanti, subendo una grande quantità di cambiamenti nel tempo.

La dottrina buddista si sviluppò inizialmente nell’India settentrionale verso il V secolo a.C. e si diffuse gradualmente nel resto del subcontinente nel III secolo a.C. a seguito della conversione del re Ashoka.
I fattori che contribuirono alla diversificazione del Buddhismo in India nei secoli successivi alla morte del Buddha includono la sistemazione dei monaci e le grandi distanze tra i centri buddisti, che portò spesso a una polarizzazione tra asceti, che praticavano nella relativa solitudine delle foreste e dei villaggi, e monaci delle città, che dedicavano il loro tempo all’insegnamento o allo studio nei grandi monasteri.

Pare che, durante il secondo concilio buddhista, si verificò uno scisma tra il gruppo degli “Anziani” (Thera in Pali; Sthavira in Sanscrito), che si atteneva molto rigorosamente, quasi in maniera letterale, agli insegnamenti del Buddha, e la cosiddetta “Grande Assemblea” (Mahāsāṃghika), che cercò di adattare le parole del Buddha affidandosi allo spirito dei suoi insegnamenti piuttosto che all’interpretazione letterale. Questo scisma diede origine a una nuova forma di Buddhismo, chiamata Mahāyāna (Grande Veicolo) — mentre la dottrina degli Anziani fu soprannominata, in maniera quasi dispregiativa, “Piccolo Veicolo” (Hīnayāna).
Oggi la storicità di questo scisma è, però, messa in dubbio, e l’origine del Mahāyāna rimane oggetto di dibattito.
In effetti, le due scuole potrebbero semplicemente aver avuto origine approssimativamente nello stesso periodo ma con scopi differenti, e verosimilmente derivando da due scuole già esistenti precedentemente: lo Sthaviravāda (che potrebbe essere stato un precursore dello Hīnayāna) e il Mahāsāṃghika (ritenuto come possibile antesignano del Mahāyāna), entrambe scuole del Buddhismo dei Nikāya — termine con cui si identificano l’insieme eterogeneo di scuole nate dopo la morte del Buddha Shakyamuni.

La distinzione tra questi due “veicoli” non è sempre rigida come potrebbe sembrare, poichè mantengono la credenza nelle Quattro Nobili Verità e nell’Ottuplice Sentiero predicato dal Buddha, ma sicuramente differiscono, a volte in modo significativo, nel modo in cui scelgono di seguire questo percorso. Nonostante le dichiarazioni polemiche, il Mahāyāna non escludeva lo Hīnayāna, ma lo integrava; considerava, infatti, la salvezza accessibile a tutti, ed era più ampiamente accessibile rispetto allo Hīnayāna, che propugnava l’osservanza rigorosa di uno stile di vita ascetico.
Da un lato la riforma del Mahāyāna introdusse certe tendenze più permissive, dall’altro sviluppò anche le tendenze più ascetiche del Buddhismo, e si focalizzò su virtù come la compassione, la saggezza e l’uso di mezzi abili (upāya) per la salvezza. A livello soteriologico, l’Illuminazione/Risveglio/Realizzazione (bodhi) sostituì l’ideale precedente del nirvāṇa.

Tra il V e il VII secolo d.C., è emerso un terzo movimento noto come Buddhismo tantrico o esoterico. Alcuni lo considerano una forma radicalmente nuova di Buddhismo, un nuovo veicolo, noto come “Veicolo del Diamante” (Vajrayāna), ma in realtà adotta molte concezioni del Mahāyāna — come considerare il saṃsāra e il nirvāṇa identici —  e altre dal Theravāda, portandole agli estremi.
Le ritualistiche tantriche enfatizzano simboli di diversi tipi, come invocazioni (mantra e dhāraṇī ), gesti manuali (mudrā ) e disegni geometrici (mandala), distinguendosi chiaramente dalle forme precedenti di Buddhismo proprio per la predominanza del rituale.

Il Theravāda, la forma dominante nel Sud-est asiatico, rappresenta una forma moderna di Buddhismo Hinayana. Questa tradizione si sviluppò in Sri Lanka tra il III secolo a.C. e il V secolo d.C., diffondendosi in Myanmar nel X secolo e successivamente in Thailandia e altri stati della penisola Indo-Cinese tra il XIII e il XIV secolo. Sebbene sia chiaramente più conservatore del Mahāyāna, ha comunque subito un’evoluzione notevole nel corso dei secoli e non può essere considerato, oggi, la forma più rappresentativa del Buddhismo “autentico” o “primitivo”.


Le tre scuole in breve – Le tre scuole oggi

3.1 Buddhismo Theravāda

Il Buddhismo Theravāda, noto come la “Via degli Anziani”, predomina oggi in paesi come Sri Lanka, Thailandia, Cambogia, Laos e Myanmar. Utilizza il canone Pāli come suo testo religioso principale, basandosi strettamente sugli insegnamenti presenti in questi testi e rifiutando i sutra Mahāyāna introdotti successivamente.
La via dell’illuminazione, secondo il Theravāda, si basa sull’eliminare l’ignoranza e il desiderio e sul raggiungere la liberazione spirituale solo attraverso l’impegno individuale, per diventare così un Arhat (l’individuo illuminato che ha raggiunto il nirvana grazie all’insegnamento del Buddha). In contrasto con le tradizioni Mahāyāna, non sostiene l’idea dei Bodhisattva. Le principali dottrine includono le Quattro Nobili Verità, il Nobile Ottuplice Sentiero e le Tre Caratteristiche dell’Esistenza, mentre le pratiche fondamentali per i discepoli di questa scuola abbracciano la meditazione vipassanā, l’osservazione dei precetti, la coltivazione delle virtù e lo studio dei testi pāli. La comunità (sangha) di monaci e monache, sostenuta principalmente da seguaci laici, ha una posizione centrale e una struttura più rigida rispetto alle altre scuole buddhiste, causata da un’enfasi particolare sulla pratica monastica rispetto a quella laica.

3.2 Buddhismo Mahāyāna

Il Buddhismo Mahāyāna è diffuso principalmente in paesi dell’Asia orientale come Cina, Giappone, Taiwan, Corea, Singapore e Vietnam.

Contrariamente al Theravāda, che pone un’enfasi sull’illuminazione individuale, il Mahāyāna si distingue per la figura del Bodhisattva, persona che si sforza non solo per la propria illuminazione, ma anche per l’illuminazione universale e la salvezza di tutti gli esseri, incarnando così gli ideali di altruismo e compassione; ed eleva il concetto di bodhicitta, termine che indica proprio l’aspirazione del bodhisattva all’illuminazione per il beneficio di tutti gli esseri senzienti.
Questa tradizione è più “liberale” nell’interpretazione della dottrina buddhista rispetto al Theravāda, e, infatti, i sutra Pāli, considerati fondamentali nel Theravāda, sono visti come testi preliminari, ampliati e completati dai sutra Mahāyāna (come il Sutra del Loto o il Sutra del Cuore), che sono ritenuti, dagli adepti, come l’espressione più evoluta e completa degli insegnamenti del Buddha. Anche nel Mahāyāna il Sangha è fondamentale, ma accoglie ugualmente sia monaci sia laici, e promuove pratiche come la meditazione e il vegetarianismo, nel suo ampio tentativo di rendere l’illuminazione accessibile a tutti.

Il buddhismo Mahāyāna è anche quello che contiene il maggior numero di scuole derivate, come la scuola della Terra Pura e la rinomata scuola Zen, ciascuna con i propri insegnamenti distintivi.

3.2.1 Le principali scuole Mahāyāna

1. Zen (Chan in cinese, Seon in coreano): Lo Zen abbraccia un approccio minimalistico e flessibile, fortemente incentrato sulla pratica, specialmente in comunità; la trasmissione delle conoscenze avviene tramite rapporto diretto tra maestro e allievo, e non grazie allo studio dei testi. Il Buddhismo Zen, inoltre, pone un’enfasi sull’illuminazione diretta e istantanea attraverso la pratica della meditazione zazen, che si distingue per la sua essenzialità: spesso è una meditazione semplicemente incentrata sulla riflessione su un koan — enigmi o domande senza risposta, utilizzati dai maestri zen per stimolare la mente oltre il pensiero ordinario —, o anche una meditazione in cui non si focalizza l’attenzione su un oggetto specifico (come il respiro); al contrario, i praticanti “semplicemente siedono” in uno stato di consapevolezza cosciente, senza sforzarsi di raggiungere una forma mentis uno stato di consapevolezza particolare o un obiettivo prefissato (va bene???). Questa scuola sottolinea l’importanza di essere presenti nell’attimo, di vivere il presente e di percepire l’immediato con “consapevole inconsapevolezza e inconsapevole consapevolezza”. Inoltre, esalta le esperienze immediate ed intuitive, e vuole superare la comprensione concettuale della realtà, frutto della pura logica e del ragionamento.
2. Tiantai (Tendai in giapponese): Fondata da Zhiyi in Cina, la scuola Tiantai armonizza le diverse tradizioni buddhiste. Integra la meditazione con l’analisi filosofica, sottolineando la coesistenza e l’interconnessione di tutti gli insegnamenti buddhisti. In Giappone, la scuola Tendai ha influenzato lo sviluppo del Buddhismo sincrético.
3. Terra Pura: La scuola della Terra Pura si concentra sulla devozione al Buddha Amitabha e la recitazione del suo nome per assicurare una nascita nella “Terra Pura” dopo la morte. Questa pratica è accessibile a un vasto pubblico e ha una forte componente di fede e speranza nella salvezza.
4. Nichiren: Fondato da Nichiren in Giappone, questa scuola promuove la recitazione del mantra“Namu myōhō renge kyō” come mezzo principale per raggiungere l’illuminazione. Nichiren sottolinea l’importanza di portare il Buddhismo nel contesto quotidiano, cercando la pace e la prosperità attraverso la fede nel Sutra del Loto.

Ognuna di queste scuole Mahāyāna presenta una prospettiva unica sulla via buddhista, con approcci variabili alla meditazione, alla devozione, alla filosofia e alla pratica quotidiana, contribuendo così alla diversità e ricchezza del Buddhismo Mahāyāna nel mondo contemporaneo.

3.3 Buddhismo Vajrayāna

Il Buddhismo Vajrayāna, noto anche come Buddhismo tantrico o esoterico, è ora praticato ampiamente in Tibet, Mongolia, Bhutan e in alcune parti di India e Nepal. Fondato sulle basi del Mahāyāna, il Vajrayāna arricchisce la sua prospettiva con rituali e pratiche tantriche esoteriche, facendo largo uso di mantra, mudra, mandala, meditazione e visualizzazioni.
I praticanti aspirano a raggiungere l’illuminazione nel corso di una vita normale, un principio condiviso con le tradizioni Mahāyāna, e credono che il Vajrayāna rappresenti la via più rapida per conseguire questo obiettivo. Lo yoga delle divinità (devatayoga) è un tipo di meditazione fondamentale nel contesto del buddhismo tantrico, e consite nella visualizzazione di una specifica divinità, ispirata a particolari tantra. L’immagine mentalmente evocata della divinità può essere oggetto di venerazione (pūjā) o fungere da modello per un’auto-identificazione, consentendo al praticante di manifestare in sé gli attributi illuminati corrispondenti. Altre pratiche, più avanzate, cercano l’unione degli elementi femminili e maschili.
Un’altra caratteristica distintiva del Vajrayāna è la stretta connessione tra maestro e allievo, insieme all’iniziazione da parte di un guru (lama in tibetano).

Le quattro scuole principali del Buddhismo Tibetano sono Nyingma, Kagyu, Sakya e Gelug. Il Dalai Lama, figura di spicco, è il massimo rappresentante della scuola Gelug, anche se quest’ultima è quella nata più recentemente.
Altra scuola Vajrayāna di rilievo, e una delle poche sopravvisute in Asia orientale, è quella Shingon in Giappone, caratterizzata dagli insegnamenti segreti noti come Mikkyō. Differisce dal Buddhismo Tibetano nelle sue origini geografiche, tradizioni di mantra e tantra, nel pantheon e nell’approccio specifico alle pratiche esoteriche e rituali. Entrambe le tradizioni condividono elementi esoterici ma presentano caratteristiche uniche basate sulle loro radici culturali e storiche.

Che differenza c’è tra il buddhismo tibetano e lo Zen?
Lo Zen e il Buddhismo tibetano si sono sviluppati come sfaccettature uniche quando il Buddhismo si è diffuso in Cina e in Tibet, integrando le idee buddiste con la filosofia taoista e la religione Bön, rispettivamente. Entrambe le tradizioni condividono la flessibilità del Buddhismo nell’adattarsi alle culture locali, offrendo percorsi spirituali versatili.
Per entrambi sono importanti i concetti di discendenza e la figura del maestro, ed è centrale l’appartenenza al Sangha, la comunità, mentre differiscono notevolmente nelle pratiche meditative.

Lo Zen si distingue per la sua essenzialità, abbracciando un approccio minimalistico, fortemente incentrato sulla pratica e non sullo studio, concentrandosi principlalmente sull’illuminazione istantanea e sulla meditazione zazen.
Importante nello zen è il concetto di “essere nell’attimo”, vivere nel presente, che plasma anche le idee riguardanti il ciclio di rinascita (saṃsāra), concetto spesso ignorato o, in certi casi, completamente riggettato dai praticanti Zen. Lo stesso Dōgen, uno dei più importanti maestri Zen e fondatore della scuola Sōtō, disse:“Una volta che la legna da ardere sia stata ridotta in cenere, non può ritornare legna; ma non dovremmo considerare le ceneri come lo stato potenziale della legna da ardere, o viceversa. La cenere è completamente cenere, la legna da ardere è legna da ardere. Esse hanno un loro proprio passato, futuro, ed esistenza indipendente. Allo stesso modo, quando gli esseri umani muoiono non possono tornare alla vita” sottolineando come gli esseri umani dovrebbero concentrarsi nel vivere il momento piuttosto che affidarsi alla fede o riflettere sul se/come la vita continui in altre forme dopo la morte.

Al contrario, il Buddhismo tibetano è più elaborato: comprende una complessità rituale quasi totalmente assente nello Zen; crede nella rinascita e accetta la presenza di “divinità” all’interno del saṃsāra, include mantra e visualizzazioni di divinità e Bodhisattva all’interno della meditazione, oltre alla concentrazione su pensieri estremamente complessi. Abbraccia, infine, un approccio più scolastico, con lo studio accademico, la memorizzazione e l’interpretazione dei testi che hanno un ruolo centrale nella vita del praticante.

In entrambe le tradizioni si rinuncia, però, alla fede in un dio creatore, sottolineando così la caratteristica distintiva di questi Buddhismi come percorsi nonteistici. Questa assenza di divinità supreme riflette la centralità dell’autorealizzazione e della comprensione della natura di Buddha all’interno delle pratiche spirituali.

Fonti
• Jerryson, Michael (2016) The Oxford Handbook of Contemporary Buddhism
• Faure, Bernard (2009) Unmasking buddhism
• Schedneck, Brooke (2023) Living Theravada Demystifying the People, Places, and Practices of a Buddhist Tradition
• Sørensen, Henrik H.; Richard K. Payne (2010) Esoteric Buddhism and the Tantras in East Asia
• Harvey, Peter (2012) An Introduction to Buddhism: Teachings, History and Practices
• Robinson, Richard H. (2004) Buddhist Religion: A Historical Introduction
• Snelling, John (1999) The Buddhist Handbook: A Complete Guide to Buddhist Schools, Teaching, Practice, and History
• Is Buddhism a Religion? on Lion’s Roar
• Zen Buddhism on bbc.co.uk
• Eihei Dogen Shōbōgenzō

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