LA RABBIA SOCIALE È UN FUOCO: COME NON BRUCIARCI
La voce del Maestro
Viviamo tempi accesi. Ma non è solo un modo di dire: c’è fuoco vero nell’aria. Un fuoco che non scalda, brucia. C’è un fuoco nelle strade, nei bar, nei corridoi delle scuole, nei commenti sotto ogni post. È un fuoco che scatta in un attimo, in una parola di troppo, in uno sguardo storto. C’è rabbia nei volti stanchi in metropolitana, nei clacson isterici, nei respiri trattenuti davanti a una fila che non si muove. C’è tensione nei silenzi in casa, nella voce che si alza per niente, nel corpo che si irrigidisce senza che nemmeno ce ne accorgiamo. Una stanchezza nervosa che ci portiamo addosso come un vestito troppo stretto. E il peggio? Il peggio è che ci entra dentro, lentamente, goccia dopo goccia, finché iniziamo ad assomigliare proprio a ciò che ci ferisce. Diventiamo più bruschi, più sospettosi, persino più cinici. Pensiamo di difenderci, ma in realtà ci stiamo spegnendo. E senza volerlo, senza accorgercene, alimentiamo anche noi quel fuoco. Una risposta tagliente, un like velenoso, un giudizio sparato al volo. Lo facciamo “per sfogarci”, “per dire la nostra”, “per non farci calpestare”. Ma la verità è che stiamo gettando altra legna sullo stesso rogo che ci consuma tutti.
Sottrarsi è difficile. Quasi impossibile. Perché la rabbia sociale è diventata normale. E ciò che è normale non si vede più: si subisce. Ma ogni tanto, basta un attimo di lucidità per accorgersi del male sottile che ci scorre intorno. Ma dovremmo avere il coraggio anche solo per oggi di non reagire come tutti. Di non rispondere con lo stesso tono. Di respirare. Non per essere “più buoni”. Ma per non farsi trascinare giù. Perché se il fuoco è ovunque, allora è urgente imparare a non diventare fiamma.

Un fuoco anche nei silenzi rabbiosi, quelli che si portano dentro come braci sotto la pelle. È la rabbia sociale, la fiamma che cresce quando il cuore si sente ignorato, schiacciato, tradito. Quando ciò che è giusto appare lontano, e la dignità sembra un lusso per pochi.
Ma la rabbia… la rabbia è una bestia sacra, e non va liberata a caso. Va compresa. Il fuoco può illuminare o distruggere. Lo diceva anche un vecchio maestro Zen, seduto sul ciglio di un campo, mentre il mondo urlava dietro di lui. Disse: “Il fuoco può cuocere il pane… oppure ridurre in cenere l’intero villaggio. Dipende da chi lo accende, e da come lo custodisce.”
La rabbia non è nemica dello spirito. Anzi, spesso è il suo campanello.
“L’uomo che non si adira per il male è o morto, o vile.”
(John Ruskin)1
La rabbia ci sveglia, ci chiama. Dice: “C’è qualcosa che non va. Guarda meglio. Non dormire.” Ma se non l’ascolti con il cuore aperto, diventa cieca. E quando la rabbia è cieca, sputa fuoco a caso. Brucia chiunque. A volte anche te stesso.
E allora? Allora serve il coraggio più difficile: fermarsi. Stare. Respirare. In un mondo che reagisce in un clic, scegliere di non rispondere subito è rivoluzionario. Nel tempo dello slogan urlato, una pausa è più tagliente di cento parole. La prossima volta prova a chiederti: questo gesto, questa frase, questa parola scalderà o brucerà? Porterà luce, o solo altra cenere?
Essere consapevoli di sé stessi non vuole dire spegnere il fuoco che sento dentro, ma educarlo. Insegna a restare. A bruciare dove serve, senza devastare. A illuminare senza accecare. Il problema non è la rabbia. È non saperla gestire. È scambiarla per verità. “Se sono arrabbiato, ho ragione.” No. Se sei arrabbiato, sei umano. E ora devi scegliere che farne.
La rabbia urlata non è potere. È il segnale che chi ti ha ferito ha ancora il timone. La forza non è esplodere. È reggere il calore senza incendiare tutto. Tutti sanno incendiare. Pochi sanno camminare tra le fiamme senza diventare farsi bruciare. E non è questione di bontà. È questione di lucidità. Chi brucia tutto, alla fine resta solo. Sopra un cumulo di cenere e ragione. Non c’è gloria nello sfogo. Solo sollievo temporaneo e più macerie poi da raccogliere. La via è stretta, lo so. Ma se sei arrivato fin qui, forse lo senti anche tu: questa rabbia che hai addosso non vuole distruggere. Vuole essere ascoltata. Vuole dire: “Sono stanco. Sono deluso. Mi sento solo.” Ma tu non lo dici. Perché nella guerra sociale, chi abbassa la voce sembra debole.
“Holding onto anger is like drinking poison and expecting the other person to die.”
“La rabbia è un veleno che bevi tu sperando che muoia l’altro”2

E invece no. L’altro non muore. Spesso nemmeno se ne accorge. Va avanti per la sua strada, mentre tu resti lì a bollire nel tuo stesso veleno, convinto di fare giustizia, ma in realtà stai solo alimentando il fuoco che ti brucia da dentro. La rabbia trattenuta ti avvelena, ma anche quella sputata a caso non ti libera: ti rende prevedibile, ti espone, ti mostra dove sei ancora prigioniero. Ci vuole più forza a stare che a reagire. Ci vuole più lucidità a contenere che a esplodere. Chi abbassa la voce, spesso la ritrova più profonda, spesso vede meglio. Chi non risponde subito, a volte agisce con più precisione e impara a gestire il fuoco e prima o poi capisce come usarlo per scaldare, per illuminare, per cuocere il pane. Perché sì, c’è chi brucia tutto per fame di affermazione e chi invece aspetta, impasta, alimenta il fuoco giusto e alla fine nutre anche gli altri. La rabbia non è il problema: il problema è quello che ci fai, mentre la tieni in mano. Se la usi per reagire, ti consuma se impari ad ascoltarla ti rivela molto di te stesso. Impara a trasformarla in ascolto profondo di te stesso.
Nel Buddhismo, la rabbia (o avversione violenta) è considerata uno dei Tre Veleni, insieme a avidità (desiderio sfrenato) e ignoranza (delusione incontenibile), che stanno alla radice di ogni sofferenza
La rabbia per il buddhismo è veleno perché oscura la mente, genera azioni distruttive e ci tiene prigionieri nelle nostre stesse emozioni negative. Il Buddha insegna che “superare” la rabbia è conquistare pace e libertà interiore. L’antidoto alla rabbia è metterla alla prova con gentilezza amorevole e consapevole verso sé stessi e gli altri, diventare Auriga.
Nelle scritture del Dhammapada leggo un’immagine potente e sottile: “Chi trattiene l’ira come un cocchiere trattiene un carro fuori controllo, io lo chiamo auriga. Gli altri tengono solo le redini.”3
Qui non si parla solo di controllo, ma di maestria interiore. Il carro è la mente. I cavalli sono le emozioni. Le redini sono la coscienza.
Tutti tengono le redini, in qualche modo. Tutti dicono: “Controllo la mia rabbia”. Ma la differenza è tra tenere le redini… e saper guidare davvero.
Il cocchiere che sa governare un carro impazzito, lanciato al galoppo, è il vero praticante di sé stesso. Perché la rabbia, quando arriva, non è gentile. Non ti bussa. Ti investe. Ti spinge a parlare, a reagire, a colpire. E in quel momento, chi sei tu? Se sei presente, centrato, consapevole, tiri le redini, resti saldo, guidi il carro senza finire fuori strada. Se non lo sei, ti illudi di guidare, ma in realtà sei trascinato.
E allora non sei Auriga.
Sei passeggero.
Il Buddha non elogia chi non prova mai rabbia (sarebbe disumano), ma chi sa contenerla con lucidità, come un cocchiere che non lascia che i cavalli lo portino dove vogliono.
Chi tiene le redini ma non guarda la strada, sarà il primo a cadere quando il carro curva.
Chi guida l’ira senza farne un nemico, può attraversare l’incendio senza farsi fumo.
- John Ruskin (Londra, 1819 – Brantwood, 1900) è stato uno scrittore, pittore, poeta, critico d’arte britannico.
↩︎ - Attribuita a vari autori, tra cui anche Nelson Mandela. ↩︎
- Dhammapada (verso 222) ↩︎
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