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La Pratica Zen: esplorando la Natura di Buddha attraverso i koan.

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La Pratica Zen: esplorando la Natura di Buddha attraverso i koan.

di Jacopo Daie Milani

Il Corso Triennale di Buddhismo Zen, che molti di voi stanno frequentando, o una sesshin, come quella a cui ora partecipiamo, sono la nostra pratica e i nostri insegnamenti, e rappresentano il Dito che indica la Luna, ossia il percorso per la nostra Vera Natura. 

Il seguente koan tratta proprio di questo. Esso può essere considerato uno spunto di meditazione per chi è all’inizio della propria pratica o per chi ormai conosce la pratica dei koan.
Solitamente, la pratica del koan consiste innanzitutto nella ripetizione dell’enunciato, cioè del punto che colpisce la propria pratica. In ogni koan se ne possono trovare solo uno o diversi. 
Possiamo considerare la pratica del koan di oggi il proseguimento della meditazione di questo ritiro, che abbiamo concentrato su due particolari insegnamenti: uno era una frase di Laozì, il compositore del Daodejing, un grande saggio taoista al quale la pratica Zen si è espirata molto. 

Lo zen ha al suo interno tantissimi elementi che vengono dalla pratica taoista. Tra di essi, è evidente il rapporto peculiare che questa scuola buddhista ha con la natura. Sia anticamente che ad oggi, i monasteri zen sono sempre stati costruiti sulle montagne, in mezzo alla natura. Come raccontavo durante l’incontro con i monaci, essi sono conosciuti anche con un doppio nome che descrive la natura e la montagna presso cui si trovano. Lo zen insiste molto sul considerare la natura come immagine della Natura di Buddha proprio per aiutarci a comprendere e a realizzare che tutto quel ciò che è fuori di te è uno con la tua natura autentica: ciò che esiste, ciò che è, ciò che diviene, fa parte del tuo essere. 
La frase di Laozì che avevo scelto era: Il vero viaggiatore non ha destinazione e nessun orario di arrivo fisso.

Questo spunto di meditazione, di riflessione o di pratica del koan,  a seconda di come un praticante lo considera, ci suggerisce che, quando pratichiamo lo zazen, deve cadere ogni aspettativa ed ogni obiettivo. Il viaggiatore non ha destinazione perché sappiamo che, se manteniamo l’idea di sederci in zazen per realizzare qualcosa di diverso da come siamo, è come se si sedessimo per diventare altro da noi stessi: ci sediamo in un modo e pensiamo che attraverso la meditazione possiamo qualcos’altro che da realizzare, quando invece la vera Natura di Buddha è già compresa in noi stessi, in questo momento. 
Nella seconda parte della frase, leggiamo che il viaggiatore non ha nessun orario di arrivo: è perché siamo già arrivati!
Poi abbiamo scelto come spunto di pratica uno haiku di Shoichi Taneda, o Santoka, un poeta giapponese noto per i suoi haiku in versi liberi, a differenza di quanto prevedono le regole di questo tipo di poesia. 
Anche questo haiku riguarda la natura, nel duplice significato dell’armonia dell’ambiente che ci circonda e della nostra natura di esseri realizzati, che forse non abbiamo ancora svelato a noi stessi. E’ il mistero che ci attende quando avremo varcato la Porta Senza Porta, il titolo e l’argomento della famosa raccolta di koan di Mumon.

Secondo il detto di Lao Zi, il viaggiatore è il praticante che non ha destinazione. 
Quando varchiamo la Porta Senza Porta, non raggiungiamo la destinazione della nostra natura autentica. In realtà, lo siamo in ogni momento. Semplicemente, non ce ne rendiamo conto.  È come se fossimo in viaggio su un treno, e rimanessimo chiusi in bagno tutto il tempo invece di sederci a fianco del finestrino e ammirare da lì il paesaggio, la magnificenza della natura che scorre durante il tempo della nostra vita. Oppure potremmo dialogare, negli scompartimenti, con i compagni di viaggio del Sangha degli Esseri Umani, partecipi del nostro momento presente. Tale momento presente comprende tutti gli esseri, la natura e la nostra natura autentica, la Natura di Buddha. E nel nostro viaggio non porta ad una destinazione diversa, ma ad un momento senza tempo e, appunto, senza orario di arrivo, o di realizzazione.

Lo haiku di Santoka dice: Questa è la pietra, bagnata dalla pioggia, che indica la strada
Mi è piaciuto mettere insieme la frase di Lao Tze e questo haiku perché comunicano tra di loro la stessa cosa in maniera diversa. La poesia di Santoka, per quanto possa sembrare più ermetica, penso che chiarisca anche e che dia uno spunto di riflessione ulteriore al koan del vero viaggiatore, senza destinazione né orario d’arrivo. La pietra che indica la strada è lì ferma immobile. Lo scorrere del tempo è la pioggia che bagna la pietra. La pietra è la nostra vita e gli accadimenti sono la pioggia che bagna la nostra vita. Lo scorrere della nostra vita senza destinazione, senza orario d’arrivo è lì presente in ogni momento, apparentemente immobile come la pietra che segna la strada.

Di fatto, non c’è nessuna immobilità, ma si muove una totalità: lo scorrere della nostra vita nel continuo a essere del momento presente. La pietra che indica la strada, indica l’assoluto, l’ atemporale dentro il momento presente.  Il tempo passato è tutto racchiuso nel momento presente. Noi siamo la somma di tutto il tempo passato. Non solo del tempo passato da quando siamo nati, ma siamo il tempo senza tempo. L’origine del tempo è racchiusa dentro di noi. Per arrivare a noi, siamo passati attraverso uno spazio senza tempo dall’origine dei tempi. Diversamente, non saremmo qui. 
Uno scienziato, un astrofisico potrebbe considerare e descrivere il mutare impermanente e continuo di tutto l’universo in un percorso dal Big Bang in poi. La nostra natura autentica racchiude tutto il tempo da quel momento ad oggi. Ciò significa che in noi vive questo eterno passato, di cui abbiamo memoria soltanto della storia che conosciamo, di quando incominciamo come esseri umani ad avere memoria. Ma questo fa parte della memoria della mente. 
Allo specchio, abbiamo detto, tu sei me, ma io non sono te, sono molto di più. Siamo qualcosa di più del limite della memoria della nostra mente e di quella della storia. Siamo il passato senza fine e allo stesso tempo,  la pioggia che cade e che bagna questo presente, in un continuo scorrere. Siamo il continuo divenire, che racchiude passato e futuro.
Nella sala di Dokusan, dietro lo zendo, troviamo una calligrafia dipinta da una praticante.
È KWATZ! L’urlo degli antichi patriarchi.
Esso rappresenta la rottura di ogni concezione di passato, presene e futuro, l’apertura totale, che, come un tuono, apre il momento presente.
Quando noi, seduti in zazen, raggiungiamo questa chiarezza, allora dovremmo sorridere pensando alle destinazioni che vogliamo raggiungere e a tutti gli obiettivi spirituali. Non a quelli normali, materiali, che fanno parte della mente, dell’essere umano e che nella giusta misura esistano e strutturano il nostro io, ma gli obiettivi della ricerca profonda del nostro essere. 
Una ricerca di una qualsiasi destinazione ci dovrebbe far sorridere quando ci siamo seduti in zazen, e ci scopriamo Natura di Buddha. 
Il titolo del koan di questo pomeriggio è: “Dipingere la natura”.
Abbiamo lavorato bene con questi koan, nei giorni scorsi e tutta questa mattina. 
Domani vivremo un momento importante proprio grazie alla pratica della pittura, non importa se di una calligrafia o di altro.  Dipingeremo, scriveremo, mostreremo la nostra natura di Buddha attraverso la pratica dello shakyo, la trascrizione dei sutra. In questo caso, il sutra sarà l’hannya shingyo, il Sutra del Cuore. Ekichu, il settimo maestro del tempio Jufuku-ji, era un noto pittore. 

Nello Zen, molti maestri sono stati noti pittori. 
Lo zen ha sempre avuto un rapporto molto stretto con l’arte, avendo sempre preferito una pratica esperienziale diretta agli insegnamenti dottrinali del buddhismo. Non è un caso, che lo zen consideri la pratica del samu un momento molto importante di pratica. Nella pratica di samu si esprime l’unione con il divenire del momento, con la pioggia che bagna la pietra e, nell’attimo, riesce a trasformare la nostra vita.

Riuscire a trasformare il nostro lavoro, anche se molte volte non ci piace, nell’espressione di noi stessi è la pratica dello Zen. Per questo, molti maestri dipingevano, calligrafavano, suonavano il flauto, scrivevano versi, poesie, poemi, o semplicemente tagliavano meloni e traghettavano persone sui fiumi. Dovrebbe farci molto riflettere come grandi maestri dello Zen, quei patriarchi di cui recitiamo i nomi tutte le mattine come memento di un percorso, come dicevo prima, dal Big Bang a noi e quindi da Shakyamuni Buddha a noi, non discriminassero tra pratica dello Zen codificata come lo Zen, i Sutra, e la nostra pratica, cioè la nostra vita quotidiana, ordinaria.
Alla domanda “Qual’è la Natura di Buddha?”, essi rispondevano “Tre libbre di lino”, “il pino nel cortile” o, come Dogen, “fiumi, vallate, montagne, alberi”. Un giorno Nobumitsu venne a chiedergli di dipingere il profumo descritto in un famoso verso: “dopo aver camminato tra i fiori, lo zoccolo del cavallo profuma”.
In realtà noi possiamo vedere già ora l’immagine dell’impronta del cavallo che cammina tra i fiori e assorbe tutto il profumo di dove cammina. Quando noi leggiamo i sutra, quando noi pratichiamo, assorbiamo tutto il profumo della pratica, che entra, come si dice nello zen, negli 84.000 pori della pelle. Quando questo non succede, invece, i maestri sono soliti dire che “c’è puzza di zen”.

Ora però torniamo al koan. I koan come questo hanno enunciati molto lunghi perché appartengono alle raccolte  del periodo di Kamakura, nel quale la pratica proposta era molto vigorosa. Era un momento importante per la diffusione della Zen, nel quale  c’era bisogno di molto rigore e di molta chiarezza su quello che era l’aspetto politico e culturale della società, ma anche del buddhismo che veniva praticato, molto basato su aspetti devozionali e dottrinali. In quel periodo, lo zen diventa una scuola buddhista importante in tutto il Giappone proprio perché insegna ad esprimere la propria natura autentica in maniera molto più semplice e pragmatica. Il maestro disegnò uno zoccolo di cavallo e una farfalla che gli svolazzava attorno. Nobumitsu allora recitò il verso: “la brezza primaverile sulla riva del fiume”.

Nelle pratiche dello zen, a volte, la domanda è più importante della risposta, nella misura in cui essa ci spinge ad interrogarci sul perché viene essa viene posta. Coerentemente con questo uso, Nobumitsu, signore del luogo dove probabilmente era sito il monastero Jofuku-ji,  sta mettendo alla prova il maestro Ekichu, provocandolo. Ciò non succede perché Nobumitsu non aveva stima del maestro, ma proprio perché vuole che il maestro manifesti la sua realizzazione per carpirla e farla propria.
Per questo motivo, egli lo mette alla prova e lo sprona, sfidandolo nell’arte nella quale quest’ultimo era più esperto, chiedendogli delle risposte illustrate ad alcune frasi che evocano la natura dell’essere del Buddha. Nobumitsu chiede al pittore di dipingergli il profumo dello zoccolo del cavallo che profuma dopo aver camminato tra i fiori, Ekichu gli dipinge uno zoccolo di cavallo con una farfalla che gli svolazza intorno. Il signore feudale non si accontenta però di questa prima spiegazione, che è la rappresentazione di questo dipinto e spinge il maestro ad esprimere una comprensione ancora più approfondita. Allora gli chiede di rappresentare il verso “la brezza primaverile sulla riva del fiume”. Quindi, Nobumitsu, mentre prima gli proponeva qualcosa di concreto, come un cavallo, gli zoccoli e i fiori, ora gli chiede qualcosa di impalpabile e di meno evidente. In risposta, il maestro disegnò un ramo di salice che oscillava. In una storia zen, un maestro agita un ventaglio, facendosi aria, e chiede ai propri discepoli se è la brezza rinfrescante è frutto del ventaglio o dell’aria che viene mossa. In un altro famoso koan, due monaci si chiedono, osservando una bandiera sventolare, se la bandiera è mossa dal vento o, muovendosi, provoca il vento. Siamo di fronte ad un caso simile. Nobumitsu non fu ancora soddisfatto, e quindi citò un altro famoso detto zen: “Un dito puntato al cuore dell’uomo. Vedi? La Natura é Buddha!”. Gli chiese dunque di dipingere il cuore. Il maestro velocemente prese il pennello, lo intinse nell’inchiostro e segnò una macchia sul volto di Nobumitsu.  Il samurai ne fu sorpreso e adirato. In quel momento, il maestro ritrasse rapidamente il suo volto contrariato. 
Allora Nobumitsu, che aveva sicuramente una bella tempra di guerriero e non lasciava la spada, incalzò e gli chiese di dipingere la natura, citata nel detto “Vedi la natura!”, esprimendo una richiesta ancora più essenziale. Il maestro prese il pennello, lo ruppe a metà e disse: “Ecco!”. Nobumitsu non comprese.
Allora il maestro, compassionevole, aggiunse: “Se non avete l’occhio che vede, non potete vederla”. Nobumitsu disse: “Prendete un altro pennello e disegnate l’immagine della natura!”. 
A questo punto il maestro lanciò l’ultima sua freccia, e probabilmente colpì. Il maestro rispose: “Mostrami la tua natura e io la disegnerò”. Nobumitsu non ebbe più parole. 

Qui abbiamo un bellissimo dialogo come quelli che possono avvenire tra tra maestro e discepolo: uno è un praticante di lunga data, come probabilmente era Nobumitsu, l’altro è un maestro zen.  Nobumitsu incalza nelle sue continue richieste al maestro, ponendo domande che potrebbe porre a sé stesso. Quando chiede al maestro di disegnare il profumo dello zoccolo del cavallo, gli chiede: “dov’è la realizzazione nella mia pratica”? Il maestro disegna quindi uno zoccolo e una farfalla, un esempio di una bella realizzazione.“. Sono più bravo, più bello e più buono che pria”, diceva Petrolini. Però non è cambiato niente.

A questo punto, anche Nobumitsu va più a fondo nelle sue richieste. Noi, come lui, proseguiamo con più determinazione: più zazen, più pratica, per andare oltre all’autocompiacimento del riuscire a stare quel minuto in più in zazen o del sapere tutto sulla Natura di Buddha. Si va negli strati più sottili della coscienza, appunto, a vedere la brezza primaverile sulla riva del fiume. Sarà vero che siamo tutti uno, ma troviamo ancora la raffigurazione del ramo di un salice, ancora un oggetto esterno a noi, mosso dalla Natura di Buddha. Per quanto il salice si muova, non riusciamo a vedere la brezza, perché non abbiamo ancora compreso che siamo uno con tutti gli esseri. Allora ci immergiamo ancora di più nello zazen per tutta la notte della Oseishin, ma a questo punto arriva un altra domanda: “Un dito puntato al cuore dell’uomo. Vedi che è la Natura di Buddha?”. Nobumitsu ci chiede di dipingere il cuore, cioé di immergerci per trovare il cuore centrale della pratica della Natura di Buddha.  A questa richiesta, il maestro Ekichu prende il pennello e segna una macchia sul volto di Nobomitsu, che è il nostro stesso volto. 

Il cuore della pratica, cioè la Natura di Buddha, sei tu, sono io, lo è ognuno di noi. Probabilmente sono vicino alla mia risposta, ma ancora non l’ho realizzata. Ancora una volta mi immergo nella pratica, con ancora più forza.
Come Nobumitsu, che chiede al maestro di dipingere la natura nel detto “Vedi la natura!” chiedo a me stesso di mostrare questa natura autentica. Di fronte a tale richiesta, Ekichu rompe il pennello.

È un atto molto forte, incomprensibile per chi ha l’occhio zen che si sta ancora schiudendo. Il maestro ruppe il pennello e disse: “Ecco!” e Nobumitsu non comprese ancora. 

Allora il maestro aggiunse “Se non avete l’occhio che vede, non potete vederla”. Quindi, se non l’avete realizzata, non potete comprenderla. La pratica continua. Un praticante serio non è così arrendevole nella sua ricerca. 

Infatti, Nobumitsu insiste: “Prendete un altro pennello e disegnate l’immagine della natura” e il maestro rispose: “Mostrami la tua la tua natura e la disegnerò, cioé: “Se mi mostri chi sei, allora sei realizzato”. Ognuno di noi dovrebbe porre tale questione a sé stesso: se riesco a mostrare chi sono, allora sono realizzato. Le domande di verifica alla comprensione di questo koan sono. Come mostrereste la natura a voi? Questa è la domanda rivolta ad ognuno di voi ad ognuno di voi come praticante. Come mostrereste la natura? Non fatevi ingannare tenendo presente “Natura di Buddha, natura di Buddha, natura di Buddha, natura di Buddha”, sennò il koan è stato inutile. 

Come mostrereste la natura?  E ancora: Vedete la vostra natura e datene una dimostrazione. Qui e ora!. È quello che chiede Nobumitsu.
E la terza è: Dite qualcosa in luogo delle risposte del maestro.

Bene. Manteniamo nella nostra mente questo koan, che adesso rileggerò, senza nessuna interruzione. L’ultimo giorno, come sempre, ci riuniremo in un mondo, in un incontro di domanda e risposta libero per chi vorrà mostrare la sua natura.

Ekichu, il settimo maestro del monastero Jufukuji, era un noto pittore.
Un giorno, Nobumitsu venne a chiedergli di dipingere il profumo descritto nel famoso verso: “Dopo aver camminato tra i fiori, lo zoccolo del cavallo profuma”.  Il maestro disegnò uno zoccolo di cavallo e una farfalla che gli svolazzava attorno. 
Poi, Nobumitsu recitò un verso: “La brezza primaverile sulla riva del fiume”…
…o la pioggia che cade sul giardino di Sanboji…
…e gli chiese di dipingere la brezza. Il maestro allora disegnò un ramo di salice che oscillava. Nobumitsu recitò il famoso detto zen: “Un dito puntato al cuore dell’uomo, Vedi? La natura è Buddha!” e chiese ad Ekichu di dipingere il cuore. Il maestro prese il pennello e schizzò una macchia sul volto di Nobumitsu. Il guerriero ne fu sorpreso e adirato. Allora, il maestro ritrasse rapidamente il suo volto contrariato.  Nobumitsu gli chiese quindi di dipingere la natura citata nel detto: “Vedi la natura”.
Il maestro ruppe il pennello e disse: “Ecco!” 
Nobumitsu non comprese. Il maestro aggiunse: “Se non avete l’occhio che vede, non potete vederla”. Nobumitsu incalzò: “Prendete un altro pennello e disegnate l’immagine della natura!”. Il maestro rispose: “Mostrami la tua natura e io la disegnerò”. 

Nobomitsu non ebbe più parole. 

Questo caso divenne un koan dello zen di Kamakura nei colloqui di Mitsudo di Okukuchi.

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