SENZA GUIDA PERSONALE, LO ZEN NON È AUTENTICO. L'importanza del Dokusan nella pratica Zen.
La voce del Maestro
Yasutani Roshi sottolineava con forza quanto il Dokusan (独参) — l’incontro diretto e privato tra praticante e maestro — sia elemento essenziale e insostituibile della pratica Zen. Lontano dall’essere una semplice formalità o un accessorio del percorso spirituale, il Dokusan rappresenta il cuore pulsante della trasmissione viva del Dharma. Questa forma di insegnamento non è una creazione recente, ma affonda le sue radici nell’epoca stessa del Buddha Shākyamuni, che intratteneva rapporti personali, intensi e trasformativi con i suoi discepoli più sinceri e impegnati.
Gli annali buddhisti sono colmi di racconti di questi incontri: possiamo chiamare Dokusan l’episodio di trasmissione silenziosa tra Shākyamuni e Mahākāśyapa, patriarca del silenzio, esempio perfetto del principio zen di I Shin Den Shin (trasmissione da mente a mente). Possiamo leggere in chiave Dokusan anche gli innumerevoli dialoghi con Ananda, custode degli insegnamenti, oppure le conversazioni profonde e spiazzanti con Subhūti, che nel Vajracchedikā Prajñāpāramitā Sūtra (Sutra del Diamante) interroga il Buddha con rigore e reverenza.
Questi incontri sono l’archetipo di quella relazione viva e autentica tra maestro e discepolo, che attraversa i secoli fino a sedimentarsi nella forma del Dokusan nelle scuole zen, tanto cinesi (Ch’an) quanto giapponesi.
Zen non è solo silenzio: la pratica relazionale
Ridurre lo Zen alla sola pratica silenziosa dello zazen, concepita come un gesto solitario e chiuso in sé, è una visione incompleta e limitante. Non si tratta di negare la potenza dello shikantaza — il “solo sedersi” — ma di non farne un dogma esclusivo, scollegato da tutto ciò che nella storia zen è stato trasmissione viva e relazionale. Spesso, in certi ambienti, questa riduzione deriva da una scarsa conoscenza della tradizione o da una selettività ideologica che appiattisce la vastità dello Zen su una sola modalità. Ma la Via Zen è vasta. Include silenzio, sì, ma anche parola viva, incontro, dialogo, sfida, rottura di schemi — tutto ciò che il Dokusan può offrire.
Dokusan: pratica della relazione e della verità
Il Dokusan è il luogo dove due esseri umani si incontrano nella verità, senza maschere né ruoli, nella nudità dell’essere. È qui che può avvenire l’unione — tra maestro e discepolo, ma anche tra il discepolo e sé stesso, tra essere umano e universo.
Chi crede che lo shikantaza da solo possa realizzare questa unione può cadere nel rischio del solipsismo spirituale: sedersi con se stessi, dentro se stessi, senza mai uscire da se stessi. Il Dokusan, invece, è relazione. È esposizione. È confronto. È anche rottura e risveglio. È la dimensione interpersonale della Via, non meno essenziale di quella contemplativa. Chi ha davvero realizzato ciò che Dōgen chiama “illuminazione” (qualunque cosa s’intenda con questa parola) sa che non c’è separazione tra “niente-da-ottenere” e l’urgenza umana del dialogo reale.
Lo Zen non è né puro silenzio né solo parola: è un continuo fluire tra forme e non-forme, uno scambio vivo tra vuoto e pienezza, tra silenzio e linguaggio, tra sé e l’altro. Quando l’insegnamento zen si riduce a una semplice esposizione teorica — o peggio, a una spiegazione accademica degli insegnamenti del Buddha e dei maestri — senza alcun confronto diretto con i praticanti, non c’è Zen: c’è solo dottrina. In quel caso, forse farebbe meglio un docente di studi religiosi. Non ci sono interlocutori, ma solo ascoltatori passivi. Eppure, persino a scuola, dopo la lezione ci sono i compiti, e poi il confronto — una sorta di “Dokusan” — con l’insegnante.
Chi vede nel Dokusan un ostacolo o una deviazione dalla realizzazione, perché lo interpreta come mera espressione verbale o concettuale della mente pensante — contrapposto alla “purezza” del semplice zazen — è già partito da una visione discriminante. Ha già tracciato una separazione artificiale tra mente e realizzazione, tra parola e silenzio, tra relazione e solitudine. Questa è la contraddizione: nel tentativo di evitare il pensiero, si genera un pensiero che esclude, una posizione ideologica che oppone concettualmente ciò che nello Zen è invece unico flusso indifferenziato. Parlare, tacere, sedere, ascoltare, chiedere, rispondere — tutte queste sono forme del momento presente, tutte possono essere Vie se vissute nella pienezza della consapevolezza. Il vero problema non è il parlare, né il pensare: è l’attaccamento alla forma che si preferisce. Quando si assume che solo il “semplice” zazen sia la via autentica, e tutto il resto — dialogo, parola, relazione — sia illusorio o secondario, si è già perduta l’unità originaria della pratica.
Il Dokusan non è un optional. È una manifestazione essenziale della pratica viva, quella che scuote, risveglia, spoglia, e ricongiunge ogni essere umano all’universo intero.
Se vogliamo approfondire il ruolo della relazione tra maestro e discepolo — o insegnante e praticante, o semplicemente tra due esseri umani — dobbiamo riconoscere che non si tratta solo di un focus tecnico o didattico. È qualcosa di più radicale: tocca il cuore stesso dell’essere umano nel suo processo di realizzazione.
Chi non ricorda quei colloqui brevi ma profondi con un maestro, un professore o un mentore? Frasi poche, a volte brusche o enigmatiche, che però hanno cambiato lo stato di coscienza, o si sono sedimentate fino a produrre una trasformazione interiore. E in famiglia? C’erano — e forse in alcuni casi ci sono ancora — veri e propri “Dokusan” tra genitori e figli: dialoghi intensi, scontri che superavano la soglia del concettuale e aprivano, improvvisamente, a uno sguardo nuovo sul presente. Non solo per il figlio, ma anche per il genitore.
La relazione intima, personale, diretta tra due esseri umani — come accade tra amanti, tra amici, tra maestro e discepolo — è una delle vie più dirette verso la nostra piena realizzazione, sia umana che spirituale.
Perché il Dokusan deve essere privato
Yasutani spiega con chiarezza il valore della riservatezza nel Dokusan:
- In presenza di altri, tendiamo a difendere l’ego e non siamo sinceri.
- Ci vergogniamo delle nostre debolezze e paure.
- Se il maestro ci corregge duramente davanti agli altri, perdiamo apertura mentale.
- Il rischio maggiore: di chi assiste a un colloquio privato tra maestro e discepolo è di pensare che quelle risposte, del maestro, possano valere anche per lui, ma quasi sempre non sono le nostre risposte su cui lavorare allontanandoci così dalla “nostra” pratica.
È per questo che si deve evitare qualsiasi discussione di koan con altri, anche con amici intimi o familiari.
Cosa si può chiedere in Dokusan?
Le domande che si portano nel Dokusan non dovrebbero nascere dalla curiosità intellettuale, né da esigenze teoriche o psicologiche, c’è altro spazio per questo se frequentate un centro zen con un maestro residente.
Le domande devono sorgere direttamente dalla pratica: dalla propria esperienza viva nello zazen, dal confronto reale con la difficoltà, con il dubbio, con la verità del momento presente.
Yasutani Rōshi era molto chiaro su questo punto: il Dokusan non è uno spazio per conversazioni astratte o discorsi filosofici. È uno spazio sacro, in cui ciò che conta non è “parlare bene”, ma dire la verità — anche scomoda, anche grezza, anche confusa.
In questo contesto non si edulcorano le parole per paura di offendere il praticante o viceversa il maestro, né si cerca di apparire in un certo modo. Il Dokusan è pratica di autenticità radicale.
Non si tratta solo di un colloquio: il Dokusan è un atto rituale, karmico, un momento in cui si stabilisce una connessione diretta, al di là delle forme, tra praticante e maestro. È un incontro volto unicamente alla realizzazione del Dharma. Non è orientato a risolvere problemi della vita quotidiana, anche se questi spesso si trasformano o si dissolvono come effetto naturale di una pratica profonda e continuativa.
Yasutani sottolineava con forza che senza Dokusan la pratica Zen rischia di diventare vuota e teorica, una semplice routine formale, privata della sua forza trasformativa. Senza la relazione diretta con un maestro autentico, lo zazen può diventare un’abitudine rassicurante, ma sterile.
Cosa si può chiedere al Dokusan?
La prima cosa da chiarire è che non ci si deve aspettare “risposte” nel senso comune del termine. Il Dokusan non è una consulenza spirituale né una seduta terapeutica. Non è un luogo dove ottenere consigli su come vivere meglio, né un momento per ricevere insegnamenti confezionati.
È un incontro con la verità del momento presente, così com’è — nella mente, nel corpo, nel cuore.
Possiamo aspettarci un confronto diretto. Il maestro potrebbe rispondere con parole, silenzi, gesti, domande o koan, in modi spesso non lineari, ma perfettamente calibrati sulla situazione del praticante. In questo senso, ci si può aspettare onestà, chiarezza e una forma di compassione rigorosa, a volte anche spiazzante.
Possiamo aspettarci un rispecchiamento. Nel Dokusan il maestro non è lì per rassicurare, ma per svegliare. Ciò significa che può riflettere i nostri attaccamenti, le illusioni o le zone d’ombra che non vediamo. È uno specchio vivente che, se usato con coraggio, può mostrare chi siamo davvero al di là delle narrazioni personali.
Possiamo aspettarci disorientamento. Spesso dal Dokusan si esce più confusi di prima, ma è una confusione fertile: quella che nasce quando le strutture mentali cominciano a sgretolarsi. Il maestro non dà soluzioni, espone direzioni ma non mette segnali stradali da seguire, ribalta prospettive, punta verso la radice del problema: la nostra identificazione con l’ego.
Possiamo aspettarci trasformazione. Non sempre immediata. A volte una parola del maestro ci lavora dentro per settimane o mesi. Altre volte un gesto, uno sguardo, un silenzio risveglia in un istante qualcosa di profondo. La trasformazione non è spettacolare, ma reale: una fessura si apre, e qualcosa cambia.
Non possiamo aspettarci conferme. Il maestro non è lì per validare le nostre esperienze o credenze. Il Dokusan è una verifica spirituale, non un incoraggiamento emotivo. Il maestro potrà restare in silenzio, scuotere la testa, o rispondere con una frase ambigua: tutto è parte di un linguaggio che mira a farci vedere, non a farci sentire meglio.
Dal Dokusan possiamo aspettarci tutto ciò che serve alla pratica, ma niente di ciò che il nostro ego vorrebbe ricevere.
Dokusan è un luogo di verità, rischio, apertura e presenza viva. Non è sempre confortevole, ma se ci si entra con coraggio, può diventare uno dei luoghi più preziosi della pratica: quello in cui si rompe la bottiglia e realizziamo che l’oca è sempre stata fuori dalla bottiglia.
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