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L’importanza delle parole oggi: tra silenzio, consapevolezza e relazione.

La voce del Maestro
L’importanza delle parole oggi: tra silenzio, consapevolezza e relazione.

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Viviamo in un’epoca di eccesso linguistico, dove le parole vengono usate come armi o merce, più che come ponti di relazione.


Eppure, proprio oggi, abbiamo più che mai bisogno di parole che sorgano dal silenzio, parole consapevoli, compassionevoli, necessarie.
Parole che non riempiano, ma che aprano spazio.

Nella comunicazione autentica, Zen e vita quotidiana si incontrano: entrambe cercano la parola giusta, quella che non appartiene al sé individuale, ma alla realtà stessa che parla attraverso di noi.

Forse il compito più alto, oggi, è restituire valore alla parola: ritrovare il suo peso, la sua sacralità, la sua capacità di creare, guarire, liberare.
Oggi siamo nella comunicazione continua, dove ogni secondo milioni di parole attraversano gli schermi, i cellulari, le nostre menti. Mai nella storia l’essere umano ha parlato tanto, e, paradossalmente, mai è stato così difficile ascoltare.
Le parole scorrono come acqua, ma raramente dissetano; si moltiplicano come echi, ma spesso non arrivano davvero a nessuno.
 

Eppure lo Zen, da secoli, ci insegna che né la parola né il silenzio sono nemici: sono due forme della stessa verità. Le parole possono ingannare, ma possono anche illuminare. Possono ferire, ma anche risvegliare. Quando sono pronunciate da una mente libera, le parole diventano veicoli di consapevolezza, ponti tra il sé e il mondo.                                                                                               In un tempo in cui il linguaggio si consuma e perde senso, ritrovare la parola viva, quella che nasce dal silenzio e restituisce presenza, è forse uno degli atti più rivoluzionari e spirituali che possiamo compiere.

Viviamo in un tempo in cui le parole vengono consumate, distorte, abusate, eppure è attraverso di esse che continuiamo, giorno dopo giorno, a costruire il mondo… o forse la sua illusione?
Ogni società, ogni relazione, ogni pensiero prende forma dentro un tessuto di parole: esse sono il respiro della nostra coscienza collettiva, la materia fragile con cui diamo significato a ciò che viviamo.                                                                                                     

A volte, anche a me, viene la tentazione di tacere, di sospendere ogni discorso e ritirarmi nel silenzio, come se il mondo potesse guarire da sé, lontano dal rumore delle nostre voci.
Ma spesso quel silenzio non è la quiete dell’osservatore consapevole, bensì il mutismo di chi vuole isolarsi, e per un po’ forse va anche bene… Ma poi il silenzio assoluto non è il silenzio dello Zen, ma una chiusura, una difesa, e allora torno ad ascoltare e a parlare.
Oggi, spesso, il silenzio quando c’è, non è il silenzio del Buddha che tace per compassione, ma il silenzio dell’uomo moderno che non trova più parole vere. Rimaniamo zitti, ma non presenti.
Ci allontaniamo dal dialogo, e con esso dalla possibilità di incontrarci davvero.


La parola costruisce ponti

Le parole, se usate con cuore puro, sono ponti.
Possono portarci gioia, consolare nel dolore, aprire spazi di comprensione. Un incoraggiamento sincero, una conversazione autentica, una richiesta di perdono possono trasformare il mondo più di mille proclami. Le parole, nella loro semplicità, possono riunire ciò che era separato, guarire ciò che era spezzato. Per questo dobbiamo tornare a credere nel valore delle parole, non come strumenti di potere, ma come strumenti di presenza.
Ogni parola che nasce dal silenzio del cuore è un dono.
Ogni parola consapevole è un atto d’amore.

E forse, proprio in un’epoca in cui tutto sembra urlare, è tempo di disimparare a “gettare” le parole come pietre e imparare di nuovo a farle nascere dal silenzio, a parlare lentamente, consapevolmente, sinceramente.

La potenza e la responsabilità del linguaggio

Spesso non troviamo le parole per esprimere il nostro animo, per parlare all’altro.
Non perché manchino, ma perché non abbiamo abbastanza silenzio da offrir loro per fiorire, per liberarsi. E anche se sappiamo che “un bel tacere non fu mai scritto”, quando arriva il momento giusto una sola parola può… far fiorire un campo arido.

Le parole sono leggere come l’aria, segni apparentemente innocui, eppure, come molti di noi hanno sperimentato, possono anche pesare come pietre. Una sola parola può unire o dividere, guarire o ferire, costruire un ponte o innalzare un muro.
Per questo, nello Zen, il linguaggio non è mai qualcosa di banale: è una via di realizzazione.

Molti koan, i dialoghi enigmatici tra maestro e discepolo, si chiudono con l’imperativo:
“Parla! Parla!”

Perché la parola autentica non descrive: realizza.
Non nasce da un pensiero calcolato, ma da una mente viva e silenziosa, capace di rispondere con tutto l’essere.

Il poeta e monaco Matsuo Bashō, maestro dell’haiku, scrisse:
“Bisogna parlare quando la luce della cosa vista non è ancora svanita.”

Ma non parlava solo di ciò che l’occhio vede: si riferiva alla parola che sgorga dall’esperienza viva, quando percezione e consapevolezza sono ancora una cosa sola.
È la parola che non tradisce la realtà, ma la lascia sbocciare nel suono.

Ogni parola che rivela l’intero essere, pronunciata con la forza della vita stessa, è una parola che merita di essere detta: la parola che esprime il sé reale, che non maschera e non calcola.

Le parole sono dentro di noi, trattenute come semi in attesa di germogliare.
Quando finalmente trovano voce, possono diventare vento, tempesta, uragano. A volte basta una sillaba, detta o taciuta, per cambiare il corso di un’esistenza. Può accendere una rivoluzione o guarire un cuore. 

A chi appartengono le parole?

Ma a chi appartengono le parole?
A chi le pronuncia o a chi le ascolta?
A uno, a molti, o a tutti?
Forse, come l’aria che respiriamo, le parole appartengono al mondo stesso. Le pronunciamo, ma poi si allontanano da noi, vivono vite proprie, toccano o feriscono, costruiscono o distruggono. E allora viene spontanea un’altra domanda: a che servono le parole se nessuno le riceve, se nessuno le ascolta veramente? Una parola non ascoltata è come una preghiera sospesa nel vuoto. Solo l’ascolto dà alle parole la possibilità di fiorire, di inverarsi in noi. La parola è un dono non una imposizione.

“Ti do la mia parola.”

In queste cinque sillabe vive qualcosa di raro: fiducia, resa, amore.
È un atto di fede reciproca, un ponte invisibile tra due esseri.
Quando tutto sembra perdere valore, la parola data rimane un faro, un segno che ci ricorda chi siamo, la memoria della nostra integrità e della nostra capacità di essere veri.

Le parole come pratica del Dharma

Come ammonisce Dōgen nel suo “Sutra delle Montagne e delle Acque”:

“Non sanno che i pensieri e la percezione sono fatti di parole,
né sanno che le parole possono trascendere e liberare i pensieri che contengono.”

Il nostro pensiero e la nostra percezione prendono forma attraverso il linguaggio: sono le parole a dare corpo ai pensieri stessi. Ma, una volta pronunciate, le parole si staccano da chi le ha generate. Diventano autonome, respirano, agiscono nel mondo come manifestazioni indipendenti del Dharma.

Quando ci impegniamo in un linguaggio libero da ego, il loro uso diventa parte della nostra pratica spirituale più autentica.
Per lo Zen non si tratta di parlare dell’illuminazione, ma di vivere in modo che ogni parola sia essa stessa illuminata.

Perché, alla fine, come dice un antico maestro:“Quando il silenzio è pienamente compreso,
anche il suono di una parola è silenzio.”

UBI
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