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Illuminazione e Illusione solo una questione di Prospettiva   

La voce del Maestro
Illuminazione e Illusione solo una questione di Prospettiva   

L’illuminazione non si ottiene: si riconosce.                                                                                                                   È come cercare la luna nel cielo mentre la sua luce ci illumina già il volto.

Nel pensiero zen, l’illuminazione occupa un posto centrale, come in molte vie spirituali e filosofiche. Spesso nascosta dietro le nuvole dell’attaccamento e del pensiero.

 Le parole, come “illuminazione” o “ignoranze”, sono limiti del linguaggio che cercano di toccare ciò che va oltre le parole stesse, quel senso di unità e di pura presenza che non può essere completamente espressa.

La questione non è tanto la presenza o l’assenza dell’illuminazione, né l’ignoranza come semplice mancanza di conoscenza. La vera difficoltà risiede nella nostra incapacità di percepire la realtà così com’è. Non perché essa sia nascosta, ma perché i nostri occhi – interiori ed esteriori – non sono ancora pronti a vederla. L’illuminazione non va cercata altrove: è già qui, ma spesso siamo noi altrove. Non si tratta di cercare qualcosa di nascosto, ma di riscoprire la semplicità del percepire la realtà così com’è, senza filtrarla da una nostra riduttiva percezione. È come risvegliare gli occhi che già fanno parte di noi, pronti a vedere ciò che sempre è stato lì, nascosto nella luce silenziosa dell’essere.

L’illuminazione non è un punto di arrivo futuro, ma una realtà presente, accessibile qui e ora. È la visione diretta della realtà, uno stato dell’essere. È in questo senso, che la pratica assume un ruolo cruciale. Non è un mezzo per raggiungere l’illuminazione, ma una luce per illuminare l’illuminazione, scoprendo che anche quella luce (la pratica) è parte dell’illuminazione stessa, l’incarnazione di quello stato. Ogni passo verso la consapevolezza, ogni distacco dall’ego, è un’esperienza illuminante. Come affermava Dōgen, “La pratica è già luce.”

Un errore comune è considerare illusione e illuminazione come entità separate, su piani distinti. In realtà, sono due sguardi sulla stessa realtà. Quando siamo nell’illusione, vediamo frammenti, separazioni, giudizi, desideri e paure. Ma la luce della pratica dissolve la nostra visione personalistica, è un processo di rimozione della nostra mente dualistica che separa l’io dal tu dell’universale rivelando una visione unitaria e luminosa della vita, la realtà ultima, che ultima non è, perché è sempre nel divenire costante. 

Similmente, l’immagine Zen della luna riflessa nell’acqua illustra come la distorsione (l’illusione) e la frammentazione siano solo superficiali: la luna, la verità, resta immutata nel suo infinito manifestarsi.                                                                                                                                                                                              Invece di cercare l’illuminazione in luoghi remoti, dobbiamo rivolgerci al nostro interno. Il cambiamento, la trasformazione, avviene nel profondo del nostro essere, coltivando consapevolezza, compassione e saggezza. 

La mente non può afferrare la luce

L’illuminazione non può essere spiegata, non può essere raggiunta con la mente razionale o concettuale, che divide, ordina e giudica, forse può essere compresa ma non realizzata. La mente è uno strumento utile, ma resta un contenitore: può analizzare ciò che conosce, ma non può contenere ciò che è illimitato.
Per vedere oltre l’illusione, dobbiamo entrare nello spazio tra le forme, tra io e tu, tra domanda e risposta. Lì si apre qualcosa che non ha nome, ma che tutti possiamo sentire.
L’illuminazione non è un traguardo, né un sapere da accumulare. È una realtà da riconoscere, un modo di vedere che non si impone, ma si coltiva, come un giardino nel silenzio. 
Praticando, impariamo a lasciar andare l’illusione, non perché sia malvagia, ma perché è parziale, e ciò che è parziale, spesso, genera sofferenza per noi, per gli altri. L’illusione restringe la vita, la riduce a immagini mentali, a interpretazioni opache, ma quando la mente si rischiara, possiamo finalmente abbracciare la pienezza dell’esperienza umana e sorridere anche dell’illusione. Allora non si tratta più di sapere, ma di essere; non di cercare altrove, ma di tornare a vedere ciò che c’è sempre stato. E ciò che c’è sempre stato non urla sopra l’illusione o contro di essa, non si mostra con forza, è quieto, sottile, come il respiro che dimentichiamo di ascoltare, non si impone: attende. Quando smettiamo di cercare con la mente, iniziamo a vedere con il cuore, non un cuore solo emotivo, ma uno sguardo intero, che non separa, non giudica, non afferra, uno sguardo che accoglie. Nel vuoto tra due pensieri, nel silenzio tra due parole, la verità appare — semplice, limpida, inevitabile.
Ogni passo, ogni gesto quotidiano può essere un varco: lavare una ciotola, sedere in silenzio, ascoltare il vento tra le foglie o una persona. Niente è troppo piccolo per contenere il tutto. L’illuminazione non è altrove. Essa non arriva come un lampo esterno, ma si rivela come ciò che sempre siamo stati, prima dei nomi, prima delle convinzioni, prima della storia che ci raccontiamo. Allora la pratica non è uno sforzo per diventare qualcosa, ma un abbandono di ciò che non siamo mai stati. Solo così possiamo fiorire, nella semplicità dell’essere. E nella luce che non si può afferrare, finalmente vediamo: non abbiamo mai smesso di brillare.

Perché lo Zen, con Zazen e Koan, è pratica e illuminazione

Nello Zen, Zazen e Koan non sono insegnamenti da comprendere con la mente, ma pratiche vive, nate dall’esperienza diretta dei maestri attraverso secoli di cammino. Non servono a spiegare, ma a trasformare. Sono strumenti che ci aiutano a vedere oltre le illusioni, a penetrare la mente offuscata e ad aprirci alla realtà così com’è.

Zazen è la pratica fondamentale dello Zen. Sedersi in silenzio, semplicemente, senza cercare nulla. È lì che coltiviamo la presenza, l’attenzione pura al momento così com’è. In Zazen impariamo a osservare pensieri, emozioni, sensazioni, senza attaccamento e senza giudizio. Non respingiamo nulla, ma nemmeno ci aggrappiamo. Con il tempo, questo sguardo calmo e lucido comincia a dissolvere l’illusione: la mente si quieta, come uno stagno che smette di incresparsi, e la realtà si riflette limpida. Non solo durante la meditazione, ma nella vita intera. Zazen ci allena a vivere con consapevolezza, a vedere chiaramente in ogni gesto quotidiano.

I Koan sono paradossi, domande che la mente razionale non può risolvere. Non chiedono risposte logiche. Servono a spezzare il filo continuo dei pensieri, a sospendere il bisogno di capire, per far emergere qualcosa di più profondo. Il Koan ci spinge oltre la logica duale – giusto e sbagliato, io e tu – e ci introduce in uno spazio dove non c’è più nulla da separare. Quando la mente si arrende, si apre uno spazio vuoto, fertile. In quel vuoto può emergere una comprensione intuitiva, che non viene pensata, ma riconosciuta. Il Koan non risolve, dissolve. Non spiega, libera. È come una lama che taglia l’illusione della separazione.

Zazen ci riporta al foglio bianco. I Koan ci invitano a riscriverlo.

Zazen è lo spazio vuoto, la pagina senza parole. Sedendoci in silenzio, lasciamo andare ogni storia, ogni concetto, ogni definizione. Restiamo soltanto con ciò che è, nudo, presente. Come un foglio bianco: aperto, disponibile, senza intenzione.
In Zazen non aggiungiamo, togliamo, finché resta solo l’essere il non-essere.

Il Koan arriva come una domanda che non chiede risposta. Una frattura nel pensiero, un’impossibilità logica che fa crollare la struttura. E da quel crollo nasce qualcosa di nuovo:
non una risposta, ma una riscrittura. Non più secondo le vecchie regole della mente, ma con l’inchiostro dell’intuizione.

Zazen ci svuota.
Il Koan ci attraversa.
Insieme, ci riconducono a ciò che siamo: prima delle parole, oltre le forme, in quel punto in cui tutto può cominciare di nuovo.

 Tutta la pratica Zen è “Pulire lo specchio senza cercare il riflesso”. Questo non implica che lo specchio sia realmente sporco. Non si pulisce perché c’è sporco, ma perché crediamo ci sia.
La pratica non cambia la realtà, ma dissolve l’illusione che ci separa da essa,  “Per aiutare tutti gli esseri” a liberarsi dalla sofferenza.  

È come essere nel tempio…a Sanboji e accorgersene.
E magari… pulirlo con gioia.

Se la pratica zen fosse un corso questa sarebbe la sua tabella riassuntiva…

Aspetto della vitaIllusioneChiarezza 
SofferenzaÈ “mia” e insopportabileÈ un’onda del mare, non oppone resistenza
Ego/séÈ il centro di tuttoÈ un’eco momentaneo del Tutto
AzioneÈ motivata da mancanza o pauraÈ spontanea, naturale, risuonante
Obiettivo della praticaDiventare migliore, risvegliarsiNon c’è nulla da raggiungere, solo vedere
Conflitto con gli altriÈ personale e carico di emozioniÈ solo danza tra due prospettive illusorie
TempoC’è un passato, un presente, un futuroOgni istante è completo in sé
UBI
Monastreo ZEN
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