Abitare il pensiero libero con gli altri.
La voce del Maestro
Al ritorno dalle vacanze della mente – dai selfie in vetta, dalle escursioni senza presenza, dalle distrazioni che si travestono da vita – emerge una necessità urgente: riprenderci la mente. Non la mente che reagisce, che ripete, che rincorre. Ma la mente che osserva, che ascolta, che è. La mente viva, lucida, consapevole. La mente originaria.
Viviamo momenti in cui è necessario recuperare non solo la libertà di pensare, ma anche quella, più sottile, di pensarci: di contemplare come pensiamo, cosa ci abita, da cosa siamo mossi. Nessuno è davvero immune dal richiamo delle ideologie. In tempi caotici e incerti, queste appaiono come rifugi rassicuranti. Sono storie ben costruite, convincenti, che ci raccontano come il mondo dovrebbe funzionare. Offrono sicurezza, appartenenza, identità. Ma sono anche scorciatoie del pensiero: semplificano la realtà, ci sollevano dalla fatica di dubitare, e ci consegnano un pacchetto chiuso di risposte e nemici. Danno forma alla nostra mente e al nostro stare nel mondo, ma lo fanno irrigidendoci. Le ideologie organizzano la nostra vita mentale e sociale creando comunità di “adepti” da un lato, e “altri” da combattere dall’altro. Nazionalismi, razzismi, fondamentalismi religiosi o politici – pur con nomi diversi – condividono lo stesso schema: ridurre, comprimere, separare. Riducono la nostra flessibilità e immaginazione, ci rendono meno capaci di abitare il cambiamento, di accogliere l’ambiguità, di ascoltare il dolore altrui, soprattutto se non appartiene al nostro gruppo.
Per lo Zen, tutto questo è sintomo di un pensiero egoico e rigido. Un pensiero che ha smesso di fluire. La pratica ci invita a osservare con chiarezza i meccanismi della mente che si aggrappa, che cerca sicurezza nel controllo, che si rifugia nella certezza. Lo zazen – il sedersi in silenzio, nel qui e ora – ci riconnette con la nostra libertà originaria. Una libertà che non è fare ciò che si vuole, ma vedere le cose come sono, senza i veli delle idee precostituite. Un koan ci chiede: “Qual era il tuo volto originario prima della nascita dei tuoi genitori?” ci invita a spingerci oltre ogni definizione acquisita, oltre il pensiero condizionato. Chi siamo, prima delle convinzioni indottrinate, prima dell’educazione, prima delle identità imposte? Quali sono le nostre vere emozioni, i sentimenti autentici, i dolori reali quelli che dobbiamo affrontare veramente, non quelli indotti dall’ego pensante?
Noi siamo spesso prigionieri del tempo: di un passato che ci definisce, di un futuro che ci agita, di un presente che ci sfugge. Ma con la pratica non si tratta di cancellare la nostra storia, bensì di liberarsene come unico riferimento. Non è rimozione, ma trasformazione. Quando smettiamo di identificarci con i pensieri, torniamo liberi di riscrivere la nostra storia in modo nuovo. Il libero arbitrio è sempre possibile: possiamo scegliere di non seguire il pensiero automatico, di non cedere alla paura, di non affidarci a una ideologia per sentirci qualcuno. Possiamo scegliere di diventare più flessibili, più compassionevoli, più vivi.
E questa scelta non può essere solo teorica o individuale. Va incarnata, sostenuta, nutrita ogni giorno con la pratica reale, concreta, vissuta. Non basta leggere, capire o condividere belle parole. La via dello Zen richiede corpo, respiro, disciplina. Serve restare seduti anche quando la mente si agita, quando il corpo si ribella, quando la volontà vacilla. Praticare da soli è prezioso: ci responsabilizza, ci radica, ci mette a nudo. Ma da soli possiamo facilmente illuderci, restare intrappolati nei nostri stessi schemi mentali, confondere il silenzio con l’isolamento. Lo Zen ci ricorda l’importanza insostituibile del Sangha, la comunità di pratica. Il Sangha è specchio, sostegno, rifugio. È un campo silenzioso e vivo dove possiamo osservare noi stessi riflessi negli altri, nel loro modo di sedere, di ascoltare, di cadere e rialzarsi. È lì, nel contatto vero con altri esseri umani che condividono lo stesso cammino, che possiamo affinare la nostra consapevolezza, smascherare le illusioni dell’ego, radicare davvero la pratica nel cuore della vita.
Nei ritiri, nella condivisione del silenzio e della fatica, nello zazen collettivo che pulsa come un unico respiro, si aprono profondità che da soli difficilmente possiamo toccare. Sedere insieme è un atto di cura, non solo per sé ma per l’altro. È dire, senza parole: ci sono, siamo qui. È lasciarsi sostenere quando si vacilla. È sostenere, anche solo con la propria presenza, chi è in difficoltà. E proprio in questi momenti condivisi, nella semplicità del quotidiano vissuto con attenzione e rispetto, lo Zen smette di essere una pratica personale e diventa una forma di vita.
Non si tratta solo di “trovare il tempo”: si tratta di sceglierlo. Di riconoscere che la pratica non è mai un lusso, ma un’urgenza, una necessità dell’essere. Non ci saranno mai le condizioni perfette, non esiste un momento ideale. Ogni scusa è una forma sottile di resistenza. Occorre imparare a sottrarre tempo alle distrazioni, alle urgenze costruite, per offrirlo al silenzio, alla presenza, alla cura. Perché senza pratica, senza Sangha, senza ritorno regolare al silenzio condiviso, la mente si impigrisce, si irrigidisce, torna a rifugiarsi nel già noto. E così si perde, lentamente, la possibilità di vivere davvero.
Ogni attimo è un bivio, una presenza, una condivisione. Possiamo restare da soli nella paura o entrare nella presenza condivisa. Possiamo reagire con difesa o rispondere con apertura. Possiamo aderire per abitudine, oppure svegliarci. Ma per farlo, dobbiamo creare uno spazio interiore. Uno spazio dove respirare. Dove osservare senza giudicare. Dove disinnescare il riflesso del “noi contro loro”, del “questo è giusto, quello è sbagliato”.
Nel vento leggero
la foglia non chiede “chi sono”
ma si lascia andare.
Alleniamo la mente alla flessibilità, alla possibilità che esistano altri modi di vedere, di essere, di stare nel mondo. Chiediamoci: da quale pensiero dipende la mia identità? Quale certezza sto difendendo? In che modo il mio ego si protegge dall’incertezza e dal cambiamento? Il dubbio, in questo senso, è un alleato prezioso. È il primo segno di una mente che torna a muoversi. Non è indecisione, ma apertura. È uno spazio fertile, dove qualcosa di vero può finalmente nascere.
Lo Zen non ti dice chi devi essere. Non propone un modello. Non impone uno stile. Ti invita, con gentilezza e fermezza, a guardare. A svuotarti di ciò che non sei più. A lasciare cadere l’identificazione con le idee, i ruoli, le abitudini. E in quello spazio vuoto, tornare vivo. Presente. Radicato. Libero. Non per diventare altro, ma per tornare semplicemente a essere. Prima del pensiero. Prima del nome. Prima del giudizio.
Senza catene
il pensiero respira
e fiorisce la vita.

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